Una conoscenza condivisa per una Cultura che stimoli scambio di Buone Pratiche e diffusione di Responsabilità Sociale.
«È un motivo di enorme orgoglio per una mostra unica in tutta Italia. E un risultato storico per una città di provincia quale è Como. La mostra è stata storia di passione, che ha portato come si è visto i suoi frutti.
A fine settembre torna a Milano DAL DIRE AL FARE, il Salone della Responsabilità Sociale d’Impresa. In programma incontri, convegni e workshop dedicati all’agire responsabile delle organizzazioni. Dopo il successo della prima edizione, il Salone milanese della (RSI), replica. L’Università IULM di Milano sarà la sede del secondo Salone, in programma giovedì 28 e venerdì 29 settembre 2006. Quest’anno la rassegna ha l’obiettivo di sensibilizzare il territorio ai temi e alla diffusione della Responsabilità Sociale, e stimolare lo scambio di esperienze e di buone pratiche tra cittadini, pubbliche amministrazioni, imprese, enti locali e organizzazioni non profit.
Due iniziative con proponimenti ricchi di significato, per altro supportati da realizzazioni lusinghieri: la prima con ben oltre centosedicimila visitatori, venuti a visitare Magritte a Como; - dopo la mostra del 2004 «Joan Miró. Alchimista del segno» che ha riscosso l'interesse di 76mila visitatori, e la mostra del 2005 «Picasso. La seduzione del classico», che ha portato sulle rive del Lario oltre 77mila persone -. La seconda iniziativa, replica all’IULM di Milano, dopo il successo dell’edizione precedente.
Con riferimento all’evento comasco: lodevole sia la determinazione sia l’energia profusa per l’ottenimento dei risultati; ambizioso il fecondo proposito di stimolare la riscoperta del valore della cultura senza l’evidenza di una visione che sviluppi un processo di creazione sociale di conoscenza. A tal proposito, calzante ci pare la rassegna di fine settembre all’Università IULM di Milano con l’obiettivo di sensibilizzare il territorio ai temi e alla diffusione della Responsabilità Sociale, e stimolare lo scambio di esperienze e di buone pratiche. La chiara volontà di veicolare metodi e suggerimenti, con contributi e riflessioni, verso un'innovazione pratica e concreta di conoscenza condivisa, mi ha indotto a lambire due eventi di erudita rilevanza. L’occasione me parsa interessante per proporre un concetto da sempre ritenuto fondamentale: «Imparare dai migliori » altri imprenditori e manager per trasmettere le esperienze acquisite grazie all’impiego di tecnologie moderne e di strategie d´impresa[2]. In altri termini argomentare sulle «Buone Pratiche».
Una «buona pratica o best practice», è un metodo concreto scelto per la realizzazione di un progetto, che è stato realizzato sul campo e ha dimostrato efficacia e successo. Diventa buona pratica ogni progetto o metodologia riconosciuti vincenti, rispetto a una situazione problematica, o uno scopo da raggiungere, e trasferibili in contesti diversi da quella in cui è stato attuato. Con acuta sensatezza mi si fa notare che la maggior parte di chi legge qualcosa del genere si dirà d’accordo senza ombra di dubbio. E` incontestabile. Il problema diventa la fattibilità dei programmi (che è una tendenza istintiva rilevare, anche se non dovrebbe neppure appartenere al contesto in discussione); se uno ci pensa, il problema non dovrebbe porsi. L’aspetto negativo delle best practices è l’abitudine alla pratica stessa.
Le “best practices” si distinguono soprattutto per quell’attributo di cambiamento, o revisione continua (il famoso “continuous improvement”) che si aggiunge all’innovazione. E in questo attributo trova lo scoglio più aguzzo: chi opera un certo processo, e magari lo fa da tempo (addirittura da generazioni), tende a ritenere tale processo “la miglior pratica” e detesta qualunque proposta alternativa (squadra che vince non si cambia). Le “best practices” hanno un costo iniziale elevato e talvolta insostenibile se non collettivamente. Spesso non possono tenere in conto delle infrastrutture metodologiche esistenti perché le stesse sono oggetto del cambio. E probabilmente a quel punto che l’innovazione diventa ‘politica’ (cioè ‘di molti’), la sua argomentazione diviene più complessa e il consenso tende a ridursi. Per questo il livello di astrazione dei modelli dai relativi contesti diventa importante, apolitico ma universale al tempo stesso.[3]
«Best practice» quindi migliore pratica e non buona pratica. Quest’ultima, perciò, pur rimanendo una buona consuetudine, non può essere un’alternativa alla migliore pratica se la si vuole vincente: essere efficacia e di successo. Le «best practices» si distinguono soprattutto per quell’attributo di cambiamento, o revisione continua che si aggiunge all’innovazione. A questo proposito, opportuna si fa, un’attenta lettura delle pratiche artigiane, degli antichi mestieri: i fabbri (favari) a Venezia e il ferro Battuto, la storia della lavorazione artigianale dei metalli, i Maestri 'foresti'. Se ne può rilevare tutta la validità tramandata e ci si può accorgere di talune interessanti specificità: l’intento di favorire lo scambio e la circolazione di informazioni, la crescita di conoscenze in merito al funzionamento delle organizzazioni, alla gestione delle conoscenze, all’uso efficace di quelle metodologie, all’impiego delle persone ed al pieno uso delle loro potenzialità. «Intorno a questi maestri 'foresti' si formò una schiera di aiuti e, quindi, di artisti che seppero ben presto assimilare le lezioni dei loro maestri e sviluppare un nuovo gusto artistico caratterizzato da una raffinata capacità compositiva, da una grande misura e sobrietà[4]».
Probabilmente a questo punto l’innovazione diventa politica e quindi è forse il caso di ricondurre l’agire sulla funzionalità delle virtù «politiche». La giustizia politica quale tecnica artificiale di mediazione che, però, deve essere pensata come qualcosa di più - universale, comune, di origine “eccelsa”. In questo quadro la gestione e lo sviluppo delle Risorse Umane acquistano una nuova centralità e debbono essere interpretate in modo nuovo: come valorizzare le differenze, come scoprire e gestire i talenti. Ogni persona, al di là della sua (sempre temporanea e sempre parziale) ‘appartenenza’ ad un’organizzazione, è al centro della scena, e deve apprendere a gestirsi come ‘imprenditore di se stesso’, facendosi carico della propria formazione, del proprio sviluppo, della propria ‘impiegabilità’. L’idea mantiene al centro la metafora della rete[5] e la metafora del ponte. Rete di saperi e di conoscenze, connessione tra nodi, in un contesto complesso in continua evoluzione, dove al di là dei ruoli si è, in sostanza, tutti discenti e tutti docenti.
In fine per istigare il dibattito: « le conoscenze si accumulano e sedimentano a partire dall’esperienza. I comportamenti manageriali e gestionali si consolidano attraverso il concreto esercizio. Qualsiasi discorso orientato a riflettere su come i comportamenti sociali possono essere indirizzati verso obiettivi sarà quindi innanzitutto un discorso sulle pratiche. Non però sulle ‘best practices’, perché il best è fuorviante ed illusorio. La facile via di rifarsi a ‘best practices’, o anche, più criticamente, di imparare dalle ‘best practices’, non porta in nessun luogo. Il best è relativo al contesto ed al tempo. Altrettanto può dirsi delle ‘worst practices’, che pure forse, rispetto alle ‘best practices’, rivestono più interesse. Si impara più dagli errori che dai successi. Ma anche le ‘best practices’ non valgono in assoluto – e devono essere lette in funzione del contesto e del tempo[6]».
[1] Rassegna stampa Comune di Como
[2] TechnoKontakte
[4] www.mestieriarte.it
[5] Persone & Conoscenze
[6] Persone & Conoscenze