Un sistema intelligente:
<<Un sistema “intelligente” (che sia un museo, un computer
o semplicemente la frase di un discorso) deve essere come un lettore intelligente,
deve reinterpretare costantemente l'intero testo a ogni nuova parola che
viene aggiunta. Ogni aggiunta al testo deve alterare una quantità
di modelli interni e ipotetici di ciò che significa ogni frase
e - in fin dei conti - l'intero testo>>.
Questa considerazione è importante, perché nel porre l’accento
sul concetto di “reinterpretazione costante” (o continua)
di un insieme ne indica anche l’impossibiltà di una fine.
Il continuo ristrutturarsi di sottoinsiemi in una parte dell’insieme
va di pari passo alla destrutturazione di altri sottoinsiemi in un altro
punto dell’insieme; se si distrugge energia, o meglio se la si dissipa
con un gesto (ad esempio la bomba atomica), di lì a poco, o già
lì innanzi, ha preso corpo un altro gesto che sta già ricreando
(l’aumento delle nascite e quindi la crescita delle città
immediatamente dopo la fine della guerra), come detto, in un'altra parte
dell’insieme.
Così le informazioni che immagazziniamo nella memoria del nostro
cervello hanno più o meno lo stesso andamento; non procedono in
modo lineare o sequenziale come avevano asserito Shannon-Weaver nel 1949
(figura 1);
Fig.1
Esse necessitano di essere contestualizzate di continuo e quindi più
che di processi lineari o sequenziali si dovrà parlare di processi
simultanei in cui la sovrapposizione a volte “caotica” di
una informazione all’altra, diventa parte integrante del sistema
e si risolve inizialmente con la strutturazione di “cartelle”,
computeristicamente intese, che contengano configurazioni di base, fondamenta
fluide su cui sistema-re e ri-sistemare le informazioni, ovviamente sulla
base di elementi strutturali comuni.
Questo processo di ristrutturazione delle parti ha la funzione di alleggerire
il sistema; un economista direbbe che serve a rendere la struttura più
snella.
Può ad esempio capitare di andare in un museo senza troppe pretese
conoscitive e farsi un giro; all’improvviso ci si può trovare
davanti un’opera d’arte che non conoscevamo o che conoscevamo
ma che non avevamo mai considerato sotto un certo punto di vista (magari
suggerito da un’altro oggetto appena assorbito ma del quale non
si ha ancora preso coscienza); detta opera desta in noi enorme sgomento;
si tratta di uno sgomento positivo della cui sensazione si ha sempre raramente
esperienza e credo sia proprio questo che ci fa apprezzare quel momento
tutto interiore e aimè tutto incomunicabile. Non è assolutamente
detto che quella sia una “grande” opera d’arte, infatti
è qualcosa di più, è qualcosa, in un certo senso,
di “effettivamente nuovo”.
Ma cosa succede in quel momento al pensiero umano? Quella piacevolissima
sensazione di “autobloccarsi” in uno stato di quiete in modo
così improvviso, immediato, inaspettato e insospettabile, da cosa
è causato?
Si tratta non di una causa, la quale presupporrebbe un ragionamento lineare
(appunto di tipo causa-effetto), ma di un processo senza soluzione di
continuità che fa sì che l’opera d’arte “effettivamente
nuova” assuma la funzione di “nuova cartella”, sotto
la quale raggruppare tutte le informazioni che l’opera d’arte
in questione è andata a “solleticare”, sollecitare
in memoria.
Quest’opera d’arte ci ha fatto bene.
Ha alleggerito il sistema spiegando e quindi ricollocando le informazioni
che erano rimaste sparse, mettendo ordine e rendendo più stabile
la struttura.
A questo punto il sistema rallenterà improvvisamente, primo perché
inizialmente stordito dalla sorpresa, e poi perché dovendo portare
molto meno peso, non avrà più necessità di girare
“a tutta forza”.
In fisica, il principio di minimizzazione asserisce che un sistema raggiunge
la stabilità massima quando la sua energia è minima.
Inoltre <<il disordine microscopico (o entropia) di un sistema e
del suo intorno (tutto l’universo che vi attiene) non decresce spontaneamente>>,
ci vuole un elemento scardinatore-attrattore che funzioni da tramite tra
le parti ordinate e quelle disordinate, la congiunzione delle quali è
sempre traumatica perché almeno in parte non può non essere
conflittuale.
Tutto questo avviene sia nelle idee che nel mondo fisico.
Tutto questo deve accadere anche nel museo altrimenti non si può
parlare di arte, non perché in esso non sia realmente contenuta,
ma perché non si instaura quel processo di catturazione di un discorso
astratto, quello dell’arte che fa si che abbia luogo un arricchimento
interiore.
Un contenitore intelligente, un museo, o il cervello, deve avere gli oggetti
in ordine, ovviamente non un ordine fisico ma mentale.
A volte, quando entro in un museo ho più l’impressione di
avere davanti la “cesta dei giocattoli” di quando ero bambino
in cui gli oggetti sono buttati un sull’altro e a volte i giochi
più belli li si dimentica sul fondo, rimangono al buio.
Ma questo solo perché non li si sa raccontare, perché non
li si guarda dentro.
Nei musei in genere si usa dire che un’opera d’arte, un quadro
ad esempio, quando viene appeso al muro è già morto, già
la sua capacità di comunicare va scemando; questo è triste
perché vero ed è uno dei motivi per cui alcuni non sono
stimolati ad entrare in un museo e per cui altri potrebbero esserlo di
più. Ma allora perché quando un’opera d’arte
esce dallo studio dell’artista “viva” deve entrare in
un museo già cadavere? Perché, come in ogni sistema, l’opera
d’arte nasce e si sviluppa in un ambiente, lo studio dell’artista,
che le si confà, e lì cresce e deve rimanere se vuol continuare
a vivere. Nello studio dell’artista accade questo: vi si trova l’opera,
prima che questa vada al museo; la si potrebbe considerare la “figura”,
e lo studio potrebbe essere visto come “sfondo” di un’immagine
tutta mentale.
Senza sfondo non c’è figura perché è lo sfondo
che ci porge la figura in primo piano e che fa in modo che essa abbia
il terreno sotto i piedi, il contesto in cui espletare una funzione; sullo
sfondo, lo studio in questo caso, ci sono una serie di oggetti visivi
i quali qualificano il ruolo dell’opera e le necessità di
chi la ha compiuta; parlo non solo degli oggetti del mestiere ma del modo
di disporre l’ambiente; parlo di quei particolari tutti estetici
che non sono mai opere d’arte dell’artista ma che sono frutto
del passaggio di qualcun altro sul territorio dell’artista (si tratta
spesso di oggetti buffi e dissacratori). Astrarre la figura dallo sfondo
ha, in questo senso, la stessa funzione che avrebbe strappare la pagina
di un libro e presentarla in mostra come si trattasse del libro stesso.
Perché nasce un’esigenza, quella del portare lo studio al
museo, esigenza giusta e doverosa, quando prima non ve ne era il bisogno?
Prima questo non accadeva perché le opere d’arte avevano
fine religioso cristiano, quindi la funzione che ha lo studio dell’artista
contemporaneo oggi nell’entrare al museo, veniva svolta dalle nicchie
nella navata della chiesa in cui si “incastrava” l’opera
nel suo discorso. L’artista sapeva che doveva scrivere una pagina
di testo e inserirla nel libro-chiesa-museo; oggi l’artista ha la
libertà-dovere di saper occupare uno spazio intero al fine di rendere
più chiaro il suo discorso; deve saper installare lo spazio stesso.
Questa pratica non viene spesso condivisa da alcuni critici e anche da
alcuni artisti, eppure questo cambiamento ha a che vedere con alcuni nuovi
paradigmi che si stanno evolvendo nel nostro pensiero collettivo e che
hanno molta più rilevanza di quanto possa sembrare a prima vista…
<<Michel Imbert ha recentemente ricordato, che gli occhi, coi loro
strumenti, sarebbero telecamere assai povere. Solo una piccola parte della
luce che penetra nella pupilla raggiunge effettivamente la retina e solo
pochi elementi dell’oggetto della visione raggiungono effettivamente
il cervello. Il cervello deve ricostruire l’immagine in base a un
numero limitato di indizi.. fondamentalmente, ciò significa che
la nostra visione non è oggettiva come ci piacerebbe credere…>>.
L’ipotesi è che, oltre ad essere per molti versi soggettivo,
il vedere è basato su strutture linguistiche socialmente condivise
e inventate dall’uomo stesso, le quali modificano il modo di vedere
ovviamente nell’arco di lunghi periodi storici. L’alfabeto,
la prospettiva, la stampa, il computer, rappresentano alcune di queste
strutture, in verità le più importanti. Queste strutture,
incanalano gli andamenti del cervello, il modo in cui le varie parti si
organizzano e comunicano.
<<a un qualche livello del nostro profondo, la struttura mentale
creata dall’alfabetizzazione ha influenzato il modo in cui organizziamo
i nostri pensieri: la lettura ha portato il nostro cervello a classificare
e combinare l’informazione esattamente come facciamo con l’alfabeto.
Analogamente la struttura creata dalla televisione influenza la nostra
elaborazione dell’informazione>>.
<<Si può efficacemente sostenere che l’alfabeto influenzi
i nostri rapporti con lo spazio e con il tempo dal momento in cui impariamo
a leggere. Per esempio, nella psicologia occidentale, il passato sta a
sinistra e il futuro sta dove procede la nostra scrittura, cioè
verso destra. Ad illustrazione di ciò, osservate i due rettangoli
della figura 2. Qual è la linea ascendente e quale quella discendente?

Fig. 2
Se avete scelto quella a sinistra come linea discendente, è probabile
che il vostro medium di lettura principale non sia l’alfabeto latino.
Ma se lo è, la vostra propensione a leggere da sinistra a destra,
insieme alla trazione destrorsa del vostro campo visuale, vi porterà
inevitabilmente a concludere che l’azione, il tempo e la realtà
stessa procedono da sinistra a destra>>.
Ma cosa c’entra tutto questo con il museo? C’entra, perché
se si modifica il linguaggio, (si passa cioè, da un modo di vedere
alfabetizzato-lineare ad un modo di vedere televisivo-simultaneo) si sta
modificando il modo di lavorare del cervello, della visione e della percezione
degli spazi esterni al corpo umano, come quelli interni ed esterni al
museo.
Sembra strano ma nei musei europei l’entrata del percorso, non dell’edificio,
sta spessissimo a sinistra…
Anche nei quadri, specialmente quelli paesaggistici, si entra da sinistra…
<<Sviluppato e perfezionato per più di cinquemila anni, l’alfabeto
è divenuto la struttura mentale più importante che abbia
mai occupato la mente, l’anima e il corpo di qualunque cultura umana
fino all’invenzione dell’elettricità>>.
<<La differenza più sensazionale è il modo in cui
l’emisfero sinistro elabora l’informazione. Laddove questo
sembra programmato per analizzare il flusso di informazioni ricevute proprio
come noi mastichiamo il cibo, un boccone per volta, l’emisfero destro,
in un certo senso, divora le informazioni in un solo boccone. Si possono
trattare i dati sensoriali uno per uno o tutti in una volta. E’
questo secondo metodo di elaborazione parallela e simultanea la specialità
dell’emisfero destro… l’ipotesi è che l’alfabeto
abbia ricoperto un ruolo determinante nel porre in primo piano la temporizzazione
e la sequenzializzazione, vale a dire le due funzioni fondamentali dell’emisfero
sinistro del cervello umano. Nel lungo termine, ciò ha portato
a quella fiducia tipicamente occidentale nella razionalità e alla
razionalizzazione di ogni esperienza, compresa quella della percezione
spaziale>>. Il modernismo in architettura ne è l’esempio
più lampante e l’apice; il crollo delle due torri ne ha esaurito
i presupposti.
Il “periodo armonico” di questo sviluppo lo si è raggiunto
nel Rinascimento con la prospettiva e la stampa; poi ha avuto inizio quel
processo che si è detto di “destrutturazione del linguaggio”
o di “allontanamento dall’armonia” che non ci vede più
al centro delle cose, ma che rappresenta solo uno “spostamento”
del modo di vedere e pensare dell’uomo da una sequenzialità
programmata a una simultaneità ancora non matura e da un prevalente
sfruttamento dell’emisfero sinistro a un maggior utilizzo dell’emisfero
destro.
Nel ‘900 l’incondizionata fiducia nella tecnologia ha riempito
il mondo occidentale di oggetti, per lo più quadrangolari, perché
la produzione di massa di un bene ha moltiplicato esponenzialmente la
possibilità di fruire quel bene e di conseguenza ne ha abbassato
il costo, nonché il valore; questo sia nell’edilizia che
nei beni di consumo di massa. In arte questo processo è stato espresso,
in un senso da Warhol con la produzione seriale di un’immagine collettiva
al fine di desacralizzare l’icona scelta proprio attraverso la sua
potenziale ripetizione all’infinito e potenziare quindi la propria
“celebrità” e in senso diametralmente opposto, da tutti
gli artisti che hanno iniziato a fare arte “non ripetibile”
(Gutai, Fluxus, fino a Beecroft) concentrandosi sullo “spazio”
da occupare.
<<Tutti i sistemi di scrittura che rappresentano suoni sono scritti
orizzontalmente, mentre tutti i sistemi che rappresentano immagini, come
gli ideogrammi cinesi o i geroglifici egizi, sono scritti verticalmente>>.
Windows è un sistema per immagini.
Il museo non può venire concepito con un modello di lettura di
tipo lineare, o sequenziale, ma, come in più punti ribadito, esso
deve essere simultaneo, vale a dire fluido, senza centro o meglio con
il centro ovunque e soprattutto, non deve guardare più l’oggetto
in sé, ma, nel collocarlo, pensare più alla relazione tra
figura-oggetto d’arte e sfondo-museo, o tra figura-oggetto e figura-oggetto.
Quest’ultimo punto vale soprattutto per architetti, artisti, curatori
e critici, ma credo anche per tutti i buongustai dell’arte.
Come suggerisce McLuhan, dobbiamo smettere di collocare correttamente
un mazzo di fiori nello spazio, e cominciare invece a collocare lo spazio
tra i fiori.
La descrizione di “campo elettrico”, in fisica, è ancora
più chiara: <<nella descrizione dei fenomeni elettrici non
sono né le cariche, né le particelle che costituiscono l’essenziale,
bensì lo spazio interposto fra cariche e particelle>>.
Per Malinowsky, l’antropologia, non può prescindere dall’idea
di “campo” perché l’oggetto della ricerca, se
portato in laboratorio, può agire e reagire in modo assai diverso
anche a stimoli uguali.
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