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Un sistema intelligente:

16/10/2002 10436 lettori
5 minuti
Un sistema intelligente:


<<Un sistema “intelligente” (che sia un museo, un computer o semplicemente la frase di un discorso) deve essere come un lettore intelligente, deve reinterpretare costantemente l'intero testo a ogni nuova parola che viene aggiunta. Ogni aggiunta al testo deve alterare una quantità di modelli interni e ipotetici di ciò che significa ogni frase e - in fin dei conti - l'intero testo>>.
Questa considerazione è importante, perché nel porre l’accento sul concetto di “reinterpretazione costante” (o continua) di un insieme ne indica anche l’impossibiltà di una fine. Il continuo ristrutturarsi di sottoinsiemi in una parte dell’insieme va di pari passo alla destrutturazione di altri sottoinsiemi in un altro punto dell’insieme; se si distrugge energia, o meglio se la si dissipa con un gesto (ad esempio la bomba atomica), di lì a poco, o già lì innanzi, ha preso corpo un altro gesto che sta già ricreando (l’aumento delle nascite e quindi la crescita delle città immediatamente dopo la fine della guerra), come detto, in un'altra parte dell’insieme.
Così le informazioni che immagazziniamo nella memoria del nostro cervello hanno più o meno lo stesso andamento; non procedono in modo lineare o sequenziale come avevano asserito Shannon-Weaver nel 1949 (figura 1);

Fig.1

Esse necessitano di essere contestualizzate di continuo e quindi più che di processi lineari o sequenziali si dovrà parlare di processi simultanei in cui la sovrapposizione a volte “caotica” di una informazione all’altra, diventa parte integrante del sistema e si risolve inizialmente con la strutturazione di “cartelle”, computeristicamente intese, che contengano configurazioni di base, fondamenta fluide su cui sistema-re e ri-sistemare le informazioni, ovviamente sulla base di elementi strutturali comuni.
Questo processo di ristrutturazione delle parti ha la funzione di alleggerire il sistema; un economista direbbe che serve a rendere la struttura più snella.
Può ad esempio capitare di andare in un museo senza troppe pretese conoscitive e farsi un giro; all’improvviso ci si può trovare davanti un’opera d’arte che non conoscevamo o che conoscevamo ma che non avevamo mai considerato sotto un certo punto di vista (magari suggerito da un’altro oggetto appena assorbito ma del quale non si ha ancora preso coscienza); detta opera desta in noi enorme sgomento; si tratta di uno sgomento positivo della cui sensazione si ha sempre raramente esperienza e credo sia proprio questo che ci fa apprezzare quel momento tutto interiore e aimè tutto incomunicabile. Non è assolutamente detto che quella sia una “grande” opera d’arte, infatti è qualcosa di più, è qualcosa, in un certo senso, di “effettivamente nuovo”.
Ma cosa succede in quel momento al pensiero umano? Quella piacevolissima sensazione di “autobloccarsi” in uno stato di quiete in modo così improvviso, immediato, inaspettato e insospettabile, da cosa è causato?
Si tratta non di una causa, la quale presupporrebbe un ragionamento lineare (appunto di tipo causa-effetto), ma di un processo senza soluzione di continuità che fa sì che l’opera d’arte “effettivamente nuova” assuma la funzione di “nuova cartella”, sotto la quale raggruppare tutte le informazioni che l’opera d’arte in questione è andata a “solleticare”, sollecitare in memoria.
Quest’opera d’arte ci ha fatto bene.
Ha alleggerito il sistema spiegando e quindi ricollocando le informazioni che erano rimaste sparse, mettendo ordine e rendendo più stabile la struttura.
A questo punto il sistema rallenterà improvvisamente, primo perché inizialmente stordito dalla sorpresa, e poi perché dovendo portare molto meno peso, non avrà più necessità di girare “a tutta forza”.
In fisica, il principio di minimizzazione asserisce che un sistema raggiunge la stabilità massima quando la sua energia è minima.
Inoltre <<il disordine microscopico (o entropia) di un sistema e del suo intorno (tutto l’universo che vi attiene) non decresce spontaneamente>>, ci vuole un elemento scardinatore-attrattore che funzioni da tramite tra le parti ordinate e quelle disordinate, la congiunzione delle quali è sempre traumatica perché almeno in parte non può non essere conflittuale.


Tutto questo avviene sia nelle idee che nel mondo fisico.
Tutto questo deve accadere anche nel museo altrimenti non si può parlare di arte, non perché in esso non sia realmente contenuta, ma perché non si instaura quel processo di catturazione di un discorso astratto, quello dell’arte che fa si che abbia luogo un arricchimento interiore.
Un contenitore intelligente, un museo, o il cervello, deve avere gli oggetti in ordine, ovviamente non un ordine fisico ma mentale.
A volte, quando entro in un museo ho più l’impressione di avere davanti la “cesta dei giocattoli” di quando ero bambino in cui gli oggetti sono buttati un sull’altro e a volte i giochi più belli li si dimentica sul fondo, rimangono al buio.
Ma questo solo perché non li si sa raccontare, perché non li si guarda dentro.
Nei musei in genere si usa dire che un’opera d’arte, un quadro ad esempio, quando viene appeso al muro è già morto, già la sua capacità di comunicare va scemando; questo è triste perché vero ed è uno dei motivi per cui alcuni non sono stimolati ad entrare in un museo e per cui altri potrebbero esserlo di più. Ma allora perché quando un’opera d’arte esce dallo studio dell’artista “viva” deve entrare in un museo già cadavere? Perché, come in ogni sistema, l’opera d’arte nasce e si sviluppa in un ambiente, lo studio dell’artista, che le si confà, e lì cresce e deve rimanere se vuol continuare a vivere. Nello studio dell’artista accade questo: vi si trova l’opera, prima che questa vada al museo; la si potrebbe considerare la “figura”, e lo studio potrebbe essere visto come “sfondo” di un’immagine tutta mentale.
Senza sfondo non c’è figura perché è lo sfondo che ci porge la figura in primo piano e che fa in modo che essa abbia il terreno sotto i piedi, il contesto in cui espletare una funzione; sullo sfondo, lo studio in questo caso, ci sono una serie di oggetti visivi i quali qualificano il ruolo dell’opera e le necessità di chi la ha compiuta; parlo non solo degli oggetti del mestiere ma del modo di disporre l’ambiente; parlo di quei particolari tutti estetici che non sono mai opere d’arte dell’artista ma che sono frutto del passaggio di qualcun altro sul territorio dell’artista (si tratta spesso di oggetti buffi e dissacratori). Astrarre la figura dallo sfondo ha, in questo senso, la stessa funzione che avrebbe strappare la pagina di un libro e presentarla in mostra come si trattasse del libro stesso.
Perché nasce un’esigenza, quella del portare lo studio al museo, esigenza giusta e doverosa, quando prima non ve ne era il bisogno? Prima questo non accadeva perché le opere d’arte avevano fine religioso cristiano, quindi la funzione che ha lo studio dell’artista contemporaneo oggi nell’entrare al museo, veniva svolta dalle nicchie nella navata della chiesa in cui si “incastrava” l’opera nel suo discorso. L’artista sapeva che doveva scrivere una pagina di testo e inserirla nel libro-chiesa-museo; oggi l’artista ha la libertà-dovere di saper occupare uno spazio intero al fine di rendere più chiaro il suo discorso; deve saper installare lo spazio stesso. Questa pratica non viene spesso condivisa da alcuni critici e anche da alcuni artisti, eppure questo cambiamento ha a che vedere con alcuni nuovi paradigmi che si stanno evolvendo nel nostro pensiero collettivo e che hanno molta più rilevanza di quanto possa sembrare a prima vista…

<<Michel Imbert ha recentemente ricordato, che gli occhi, coi loro strumenti, sarebbero telecamere assai povere. Solo una piccola parte della luce che penetra nella pupilla raggiunge effettivamente la retina e solo pochi elementi dell’oggetto della visione raggiungono effettivamente il cervello. Il cervello deve ricostruire l’immagine in base a un numero limitato di indizi.. fondamentalmente, ciò significa che la nostra visione non è oggettiva come ci piacerebbe credere…>>. L’ipotesi è che, oltre ad essere per molti versi soggettivo, il vedere è basato su strutture linguistiche socialmente condivise e inventate dall’uomo stesso, le quali modificano il modo di vedere ovviamente nell’arco di lunghi periodi storici. L’alfabeto, la prospettiva, la stampa, il computer, rappresentano alcune di queste strutture, in verità le più importanti. Queste strutture, incanalano gli andamenti del cervello, il modo in cui le varie parti si organizzano e comunicano.
<<a un qualche livello del nostro profondo, la struttura mentale creata dall’alfabetizzazione ha influenzato il modo in cui organizziamo i nostri pensieri: la lettura ha portato il nostro cervello a classificare e combinare l’informazione esattamente come facciamo con l’alfabeto. Analogamente la struttura creata dalla televisione influenza la nostra elaborazione dell’informazione>>.
<<Si può efficacemente sostenere che l’alfabeto influenzi i nostri rapporti con lo spazio e con il tempo dal momento in cui impariamo a leggere. Per esempio, nella psicologia occidentale, il passato sta a sinistra e il futuro sta dove procede la nostra scrittura, cioè verso destra. Ad illustrazione di ciò, osservate i due rettangoli della figura 2. Qual è la linea ascendente e quale quella discendente?


Fig. 2

Se avete scelto quella a sinistra come linea discendente, è probabile che il vostro medium di lettura principale non sia l’alfabeto latino. Ma se lo è, la vostra propensione a leggere da sinistra a destra, insieme alla trazione destrorsa del vostro campo visuale, vi porterà inevitabilmente a concludere che l’azione, il tempo e la realtà stessa procedono da sinistra a destra>>.
Ma cosa c’entra tutto questo con il museo? C’entra, perché se si modifica il linguaggio, (si passa cioè, da un modo di vedere alfabetizzato-lineare ad un modo di vedere televisivo-simultaneo) si sta modificando il modo di lavorare del cervello, della visione e della percezione degli spazi esterni al corpo umano, come quelli interni ed esterni al museo.
Sembra strano ma nei musei europei l’entrata del percorso, non dell’edificio, sta spessissimo a sinistra…
Anche nei quadri, specialmente quelli paesaggistici, si entra da sinistra…
<<Sviluppato e perfezionato per più di cinquemila anni, l’alfabeto è divenuto la struttura mentale più importante che abbia mai occupato la mente, l’anima e il corpo di qualunque cultura umana fino all’invenzione dell’elettricità>>.
<<La differenza più sensazionale è il modo in cui l’emisfero sinistro elabora l’informazione. Laddove questo sembra programmato per analizzare il flusso di informazioni ricevute proprio come noi mastichiamo il cibo, un boccone per volta, l’emisfero destro, in un certo senso, divora le informazioni in un solo boccone. Si possono trattare i dati sensoriali uno per uno o tutti in una volta. E’ questo secondo metodo di elaborazione parallela e simultanea la specialità dell’emisfero destro… l’ipotesi è che l’alfabeto abbia ricoperto un ruolo determinante nel porre in primo piano la temporizzazione e la sequenzializzazione, vale a dire le due funzioni fondamentali dell’emisfero sinistro del cervello umano. Nel lungo termine, ciò ha portato a quella fiducia tipicamente occidentale nella razionalità e alla razionalizzazione di ogni esperienza, compresa quella della percezione spaziale>>. Il modernismo in architettura ne è l’esempio più lampante e l’apice; il crollo delle due torri ne ha esaurito i presupposti.
Il “periodo armonico” di questo sviluppo lo si è raggiunto nel Rinascimento con la prospettiva e la stampa; poi ha avuto inizio quel processo che si è detto di “destrutturazione del linguaggio” o di “allontanamento dall’armonia” che non ci vede più al centro delle cose, ma che rappresenta solo uno “spostamento” del modo di vedere e pensare dell’uomo da una sequenzialità programmata a una simultaneità ancora non matura e da un prevalente sfruttamento dell’emisfero sinistro a un maggior utilizzo dell’emisfero destro.
Nel ‘900 l’incondizionata fiducia nella tecnologia ha riempito il mondo occidentale di oggetti, per lo più quadrangolari, perché la produzione di massa di un bene ha moltiplicato esponenzialmente la possibilità di fruire quel bene e di conseguenza ne ha abbassato il costo, nonché il valore; questo sia nell’edilizia che nei beni di consumo di massa. In arte questo processo è stato espresso, in un senso da Warhol con la produzione seriale di un’immagine collettiva al fine di desacralizzare l’icona scelta proprio attraverso la sua potenziale ripetizione all’infinito e potenziare quindi la propria “celebrità” e in senso diametralmente opposto, da tutti gli artisti che hanno iniziato a fare arte “non ripetibile” (Gutai, Fluxus, fino a Beecroft) concentrandosi sullo “spazio” da occupare.
<<Tutti i sistemi di scrittura che rappresentano suoni sono scritti orizzontalmente, mentre tutti i sistemi che rappresentano immagini, come gli ideogrammi cinesi o i geroglifici egizi, sono scritti verticalmente>>. Windows è un sistema per immagini.
Il museo non può venire concepito con un modello di lettura di tipo lineare, o sequenziale, ma, come in più punti ribadito, esso deve essere simultaneo, vale a dire fluido, senza centro o meglio con il centro ovunque e soprattutto, non deve guardare più l’oggetto in sé, ma, nel collocarlo, pensare più alla relazione tra figura-oggetto d’arte e sfondo-museo, o tra figura-oggetto e figura-oggetto. Quest’ultimo punto vale soprattutto per architetti, artisti, curatori e critici, ma credo anche per tutti i buongustai dell’arte.
Come suggerisce McLuhan, dobbiamo smettere di collocare correttamente un mazzo di fiori nello spazio, e cominciare invece a collocare lo spazio tra i fiori.
La descrizione di “campo elettrico”, in fisica, è ancora più chiara: <<nella descrizione dei fenomeni elettrici non sono né le cariche, né le particelle che costituiscono l’essenziale, bensì lo spazio interposto fra cariche e particelle>>.
Per Malinowsky, l’antropologia, non può prescindere dall’idea di “campo” perché l’oggetto della ricerca, se portato in laboratorio, può agire e reagire in modo assai diverso anche a stimoli uguali.