Perché votare è un diritto.
Giravo ancora nei cantieri, correva l’anno 1998, quando ripresi degli appuntai nella mia agenda riferiti a due personaggi influenti della politica e del capitalismo italiano. Massimo D'Alema e Cesare Romiti, uomini-simbolo rispettivamente del marxismo declinante e del capitalismo montante, hanno deciso di gettare la maschera. L'uno, infrangendo uno dei più robusti tabù politici e sindacali dell'ultimo mezzo secolo, ha detto chiaramente che «è sbagliata la posizione di chi preferisce avere l’intangibilità di una forma astratta del contratto di lavoro e un disoccupato in più»; e che, tutto sommato, preferisce «un sindacato che sappia negoziare un salario minore oggi per offrire domani più possibilità di lavoro ai giovani». L' altro, altrettanto impegnativamente, ha consegnato al quotidiano spagnolo El Mundo una sentenza scolpita nel marmo: «Marx è morto come precursore di una determinata ideologia, come ispiratore del modello economico del socialismo reale, come economista. Però rimarrà sempre nella storia come uno degli uomini che più hanno lottato per dare dignità all'umanità», ciò di cui oggi si sente l'esigenza perché il maggior problema per l'Europa del dopo-Euro è la disoccupazione, giunta a livelli insopportabili. Così, da una parte, il segretario del partito nato dalle ceneri del comunismo, e dell'operaismo, ha legittimato la richiesta di flessibilità del fattore lavoro. «Sottoscrivo - ha chiosato Romiti - che è al momento tra le esigenze più sentite della borghesia capitalista». (segue)
È di questi giorni un interessante libro di Gianni Fraschetti: Marx ha vinto ma il comunismo ha perso. Marx aveva previsto una minoranza sempre più ricca e ristretta e una maggioranza sempre più vasta e povera: la ricchezza concentrata in poche mani. Nel Manifesto prefigura profeticamente lo spirito della nostra epoca: «Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti». Il marxismo è ormai prassi invasiva e pervasiva e funziona benissimo come il più potente anatema scagliato contro Dio e il sacro, la patria e il radicamento, la famiglia e i legami con la tradizione. Senza scardinare il sistema capitalistico, il marxismo si è realizzato nell’Occidente, traghettando la vecchia società cristiano-borghese al capitalismo nichilista e globale. La società dei consumi, dei desideri e dei mondi virtuali ha realizzato la definizione marxiana del comunismo: «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». Non sul piano collettivo, come pensava Marx, ma su quello individuale s’è realizzata l’utopia comunista. Non il comunismo, non l’abolizione dello Stato o della proprietà privata o delle disuguaglianze, ma l’individualismo di massa era il fine dichiarato nella «Ideologia tedesca»: la liberazione di ogni singolo individuo dai limiti locali e nazionali, familiari e religiosi, economici e proprietari. (segue)
E se ripartissimo da Don Sturzo e Guareschi? ... Una cosa che non convince completamente: la costante insistenza sul concetto, quanto mai nebuloso ed impalpabile, di «moderati». Il suggerimento che timidamente si propone consiste nel mutare radicalmente aggettivo, tuttavia: da «moderati” ritornare ad essere «popolari». Esattamente nell’accezione intesa da Don Sturzo. Un concetto ben più concreto e socialmente trasversale rispetto all’evanescente «moderatismo», che tutto e il contrario di tutto vuol dire. (…) Perché e come declinare nel reale l’idea popolare che dovrebbe animare la rinascita del Centrodestra? Il perché è presto detto: per impedire che, indebitamente, se ne appropri qualcun’altro col suo movimento. Il come? Altrettanto semplice: cominciando col destrutturare il concetto di «moderatismo» rendendosi conto che la battaglia per la defiscalizzazione, la battaglia in difesa dell’impresa e, soprattutto, del lavoro che essa produce, la battaglia in difesa della famiglia tradizionale (che non è battaglia ideologica di retroguardia, bensì assolutamente concreta e drammaticamente impellente), la battaglia importantissima per la sicurezza e la difesa dei nostri concittadini non sono schermaglie «moderate», che impongono l’uso del fioretto, ma battaglie visceralmente e radicalmente popolari, per vincere le quali si deve mettere mano, politicamente, all’artiglieria pesante.
Argomenti politici, e della più alta politica che si possa immaginare, che entrano immediatamente in sintonia con il ventre, il cuore, lo spirito dell’elettore potenziale. Ben più di quanto facciano le concionanti e paternalistiche elucubrazioni su spread, bond, subprime, derivati e via dicendo: un linguaggio completamente avulso dalla realtà quotidiana del nostro cittadino medio. E qui arriviamo, brevemente, al secondo punto di carattere linguistico/comunicativo: la mitizzazione della «rete» è roba che può giusto andar bene per i grillini. Tonnellate di «informazioni», zero o quasi contenuti. Pillole predigerite per quanti non hanno fauci possenti, stomaci capienti e appetito robusto. In una parola, per quanti non hanno, o hanno perso, il gusto per l’informazione e la formazione, e si accontentano di una dieta Dukan applicata ai media: minima fatica per sfoggiare qualche nozioncina «prèt-a-portèr» che non comporti nessuno sforzo critico o, meno che meno, dialettico. Ora, fatta salva la potenziale bontà del media quando non viene deificato ma semplicemente sfruttato, sarebbe utile ricordare quali e quanti benedetti danni fece il «Candido» di Guareschi al PCI, contribuendo in maniera determinante alla sua sconfitta nel 1948. Tempi passati, dite voi? Attualissimi invece, compagni.