Il mio nome è rosso – Orhan Pamuk
Se le miniature avessero voce racconterebbero le storie dei volti dei miniaturisti che si affaticano su di loro, dei loro occhi che lentamente si consumano, delle mani abili che manipolano colori e dorature, dei sogni che permettono a quegli obbedienti artisti di non essere inghiottiti dalla pagina. Sarebbero testimoni di amori con begli apprendisti e figlie del Corno d’Oro, di invidie intestine e gelosie. Soprattutto rivelerebbero quello straziante dubbio tra ambizione e obbedienza ad Allah che lacera gli artisti islamici che non possono, creando, mettersi in competizione con Dio. La voce narrante delle miniature sarebbe sicuramente esibizionista: abituate piacevolmente a farsi guardare, le miniature avrebbero bisogno allo stesso modo di farsi ascoltare. Orhan Pamuk concede alle miniature questa voce, permettendo loro di chiamare in causa direttamente il lettore (osservatore-ascoltatore), confondendolo con un abile e complesso gioco di generi e tecniche di narrazione che si concludono in uno splendido trompe-l’oeil (meta) narrativo finale.
Il mio nome è rosso è una storia di amore, tra una bella da illustrazione e un innamorato molto paziente, ma anche tra i miniaturisti e un’arte destinata a soccombere, sotto il peso della religione o dell’Occidente che avanza. Veste anche le tinte gialle, cominciando con un omicidio e essendo molto semplicisticamente la ricerca di un colpevole. Ma questi due generi sembrano due schemi narrativi indossati un po’a fatica dal contenuto come pretesto per parlare di molto altro: della Istanbul del XVI secolo, della questione dell’ego nella religione islamica, della ricerca dell’Altro che porta Oriente e Occidente a specchiarsi e confrontarsi dai secoli dei secoli, del conflitto tra conservazione e commistione che tuttora divide l’altra metà del mondo.
Ammettiamolo, la lettura non è né veloce, né semplice e richiede la stessa concentrazione che i miniaturisti dedicano alla loro arte; però la scomposizione in capitoli molto corti e il continuo cambiamento di voce, tono, punto di vista, vivacizzano la scrittura e prendono per mano anche il lettore un po’ pigro, che comunque non può non restare affascinato dal fruscio delle pagine dei libri della stanza segreta del Sultano, dal sapore della zuppa di lenticchie, dai disegni che possiamo solo immaginare.
Questo è un libro misterioso, perché parla di tante cose che sulla superficie della narrazione non si vedono. E’una prosopopea che ci regala un mondo parlante che ha voglia di raccontarsi, un mondo di colore rosso: “dove mi espando io, gli occhi brillano, le passioni si fortificano, le sopracciglia si alzano, i cuori battono forte. Guardatemi, com’è bello vivere! Contemplatemi, com’è bello vedere. Io vedo ovunque, la vita comincia con me, tutto torna a me, credetemi”.