"Benzina" di Elena Stancanelli
In un mondo, quello di una stazione di servizio, considerato solitamente di pertinenza maschile dall’immaginario collettivo, si incrociano gli sguardi di due donne: le autrici di due testi narrativi. Nel primo caso si tratta del libro “Benzina” e, nel secondo, del film omonimo. Donne che narrano di donne, che usano gli strumenti propri dei diversi linguaggi e si affidano ad altre donne per realizzare un adattamento cinematografico, a partire dalle attrici fino alla responsabile del montaggio.
Nello schema degli adattamenti possibili, delineato da Sara Cortellazzo e Dario Tomasi, “Benzina” rientra nella prima tipologia e, cioè, quella che segue “il più da vicino possibile l’articolazione narrativa dell’opera di partenza”[1]. Infatti la regista, Monica Lisa Stambrini, parte con una riproduzione fedele dell’ambientazione e della sua vera protagonista: la benzina. Esattamente come spiega la suola infiammata dello stivale di Stella (Maya Sansa), dove c’è benzina c’è fuoco. E dove c’è fuoco, ci sono emozioni forti, conflitti esplosi, relazioni totali che non ammettono incertezze. O ci si ama e si difende il proprio amore, anche a costo di uccidere, o si sceglie la morte per non lasciarsi dividere dall’inevitabile intervento della giustizia.
La fiamma divampa tra donne che hanno smesso di comunicare da molto tempo, tra una figlia e una madre che recuperano il loro rapporto, paradossalmente, dopo la scomparsa di quest’ultima che rimane una presenza costante nel testo scritto. Elena Stancanelli la rende un’istanza narrante forte e determinante nelle dinamiche del racconto. Mette a confronto il passato delle protagoniste: la madre rivela il timore verso una sessualità mai vissuta appieno ma fortemente subita; Lenni, la figlia, risente del mancato rapporto con la madre nella dimensione continua e solitaria della bulimia; Stella ricostruisce l’amore materno, che non ha mai avuto, rifugiandosi nella fantasia di una madre famosa cantante che “quando deciderà che è arrivato il momento di tornare”, sa dove trovarla. Il cuore del romanzo è lì, nel rapporto tra madri e figlie. Madri che rifiutano una maternità da un lato, e figlie che cercano un dialogo con le genitrici dall’altro. Un bisogno d’amore da un lato, e il suo violento rifiuto dall’altro. Il percorso della storia parte da questo per poi giungere al vero messaggio che si racchiude nelle parole della madre-fantasma: “mai più farò l’errore di credere che ci sia un modo di esistere diverso dall’amore”.
Il percorso di tale consapevolezza è costruito, gradualmente e solidamente, nel romanzo ma è ugualmente riprodotto nel film? La drammaticità dirompente dei dialoghi-confessione è pienamente realizzata e contenuta anche nel testo cinematografico?
Cortellazzo e Tomasi, a riguardo, parlano di vincoli di linguaggio per indicare ciò che un romanzo può fare e un film non può fare, e viceversa. Il romanzo può soffermarsi su descrizioni di luoghi e personaggi, infatti, e il cinema può riuscire in un’adeguata traduzione o meno. Ricorrendo ai propri strumenti, il linguaggio cinematografico ha a disposizione tecniche narrative originali e di impatto – dopotutto è il cinema totale di Barjavel - ed è in grado di rendere la storia attraverso un intreccio che dispone di spazio e tempo in modalità diverse.
Lo spirito “on the road” del testo scritto è fedelmente rispettato nel film. L’ambientazione e le aspettative iniziali, anche. Probabilmente, la prima vera differenza che inaugura un contrasto tra i due prodotti sta nella modalità dell’omicidio. Più precisamente nel movente. Nel libro, Stella impugna una chiave inglese e, in un raptus di follia, colpisce la signora con l’intenzione di ucciderla. Invece, nel film, Stella sembra intervenire per difendere Lenni dall’aggressività della madre. La colpisce con un pugno ma senza avere finalità omicide. La morte subentra involontariamente. Questo è il primo evidente contrasto. Quando si vuole uccidere, è molto diverso dal non avere intenzione di farlo se non accidentalmente. Cambia il modo con cui pensare i protagonisti, lo sguardo con cui lo spettatore deve scavare dentro le ragioni delle azioni. In poche parole, cambia davvero il senso.
Da qui, il secondo momento fondamentale è la creazione del personaggio della madre-fantasma. L’istanza narrante è costruita attraverso quella che gli americani definiscono voice off, che si pone dall’alto della scenografia. L’elemento di novità consiste nel legame che si instaura tra voce e udito di Lenni. La giovane può sentire la madre, almeno così sembra dato che la regista gioca sull’ambiguo ruolo della voce a ponte tra sguardo materno e coscienza della figlia. Lenni si sente chiamata ma non è chiaro, almeno all’inizio, se si tratti della sua coscienza instabile e nervosa o della madre che le parla. Il dubbio dello spettatore viene risolto solo dopo la prima metà del film quando la ragazza si trova nel bagno di un locale in cui si sta svolgendo una festa illegale. Mentre si sente la voce che la provoca, Lenni guarda in camera e le risponde. Con questo sguardo che colpisce direttamente lo spettatore, è chiaro come fino a quell’istante la regista abbia cercato di trasformare le lunghe riflessioni del libro in un dialogo finalizzato al conoscersi reciproco e approfondito. Un conoscersi a fondo fra due persone che non l’avevano mai fatto prima e che si erano limitate a tollerarsi l’un l’altra. Per quanto quest’aspetto denoti un’originalità di stile nella narrazione filmica, quasi deludente appare il modo di rendere lo spirito di un fantasma attraverso brevi battute piuttosto riduttive del percorso di maturazione che il personaggio compie durante l’evolversi della storia. Non bastano pochi interventi di voce fuori campo per far comprendere il pensiero della madre. È un percorso forte e importante che parte dal disprezzo verso la storia della figlia con la benzinaia. “Ti tenevo d’occhio – confessa il fantasma della signora - sapevo che una come te poteva andare a finire male. Così fragile, senza carattere, chiunque poteva plagiarti. Fin da bambina non hai mai avuto una tua idea, gusti tuoi”. La mutazione del disprezzo in affetto non è reso chiaramente e il rischio è una banalizzazione di un aspetto che, invece, ha poco di banale ma molto di profondo e speciale. Lo sguardo con cui la madre accompagna la figlia, dalla ricerca di un posto dove essere seppellita al progetto di partire per la Grecia, cambia. Si ammanta di amore. L’amore che non aveva mai donato. E il cambiamento è così radicale da suscitare complicità e protezione quando Stella viene rapita dai ragazzi della Renault e riesce a scappare grazie all’aiuto “celeste” della madre che fa intervenire un furgone. Tutto questo piano narrativo risulta debole nel film che, però, sarebbe stato completo se la regista avesse saputo rendere meglio in linguaggio audio-visivo il ruolo della madre.
Altri due aspetti colpiscono nell’adattamento: la costituzione fisica di Lenni e la sua tendenza sessuale. La regista, preferendo per la parte Regina Orioli, dimostra chiaramente di voler tralasciare il problema della bulimia ( accennata semplicisticamente nella scena in cui la protagonista rimette sul pavimento. Scena, del resto, poco chiara) e quello del rifiuto del proprio corpo. Forse è anche questa una riduzione del testo letterario in nome di una maggiore scorrevolezza del prodotto filmico, cioè il non spiegare con ulteriori scene il drammatico conflitto interiore. A ciò si aggiunge la scelta di presentare il personaggio, sin da subito, come omosessuale. Non si accenna alle relazioni tormentate con uomini. E, anche in questo caso, la spiegazione più plausibile sta nel non voler sovraccaricare il piano della narrazione audio-visiva di rimandi al passato e, quindi, ad altre chiavi interpretative per le personalità complesse che vivono la storia. L’unica rievocazione del passato, fra le tante presenti nel libro, è il flashback del momento in cui Stella e Lenni si sono conosciute. L’aver preferito raccontare soltanto un episodio indica su quale aspetto la regia voglia far soffermare lo spettatore: il legame forte fra le due ragazze che non è amicizia. È vero amore. Esattamente come testimonia il ciondolo a forma di cuore regalato dal prete che, nel film, risulta una scelta narrativa interessante e utile. Utile perché racchiude nel suo discorso, fatto in auto mentre sorseggia dell’alcool, i pensieri d’amore che le protagoniste si scambiano sin dalla prima pagina del libro. Ed è proprio un oggetto, il ciondolo, che visivamente concentra in sé il sentimento esistente e seduce lo sguardo dello spettatore con il suo bagliore d’oro che spicca sul candore del braccio di Lenni. Ma è sempre il sacerdote a riportare l’ineluttabile destino di condanna come ombra su un momento, seppur breve, di serenità nella coppia. L’autoambulanza è lì. Richiede la benedizione per una persona – guarda caso una donna – che è morta a causa di un incidente.
La dissoluzione morale trova compimento nel rave-party cui partecipano, involontariamente, le protagoniste. In questa circostanza, è la location a rendere visibile il grado di confusione e smarrimento interiore. Una scelta buona e indovinata per rendere i fiumi di parole-confessione che arricchiscono le pagine del romanzo. L’adattamento si avvale di equivalenze e addizioni, scene che equivalgono passi di romanzo e inserimenti di luoghi e personaggi proiettati verso il fine della narrazione audio-visiva. A riguardo, i ragazzi della Renault servono a causare l’azione, a suscitare le reazioni. Vanno in giro con una telecamera per riprendere il divertimento della notte, per riprendersi in atti provocanti schiavi del piacere di essere osservati. L’osservazione, adesso, non è più solo esclusiva della madre. Ad osservare, quasi come un “grande fratello”, è un nuovo occhio che permette di guardare in modo diverso. Il senso evidente di finzione che la pellicola offre, mentre simula di essere obiettivo di telecamera, crea un distacco nella fruizione che serve allo spettatore per una visione critica e funzionale alla comprensione dell’intreccio che si fa, via via, più complesso. Non c’è solo la telecamera che riprende, ma c’è anche un’anima che osserva. C’è lo sguardo freddo di un obiettivo e c’è lo sguardo caldo di un essere, non più esistente, che sta imparando ad amare e a difendere chi ama.
A stemperare le inquietudini interiori, la regista ricorre ad un montaggio di immagini e sonoro che sostituiscono i dialoghi durante il film. Accade quando Stella pulisce il pavimento del bar, sporco di sangue. Accade quando devono trasportare il cadavere e si immettono nel raccordo, per la strada con i fanali di altre auto che illuminano i volti delle ragazze. E, ancora, quando Lenni resta sola con la madre nella discarica dove l’ha abbandonata. Momenti lunghi in cui la musica cavalca l’emozione del dramma, abbraccia i personaggi immersi nella loro solitudine e tiene sospesa l’attenzione dello spettatore. Certo, non è la musica di Gianna Nannini che così tanto è presente nel libro, ma è musica di tensione e basta alla struttura narrativa.
Un piccolo dettaglio: le scarpe della madre. Frequentemente inquadrate, non corrispondono al modello descritto dall’autrice. Nel romanzo, hanno i lacci. Sono firmate e di classe. Difficili da indossare ma molto belle e vanitose, come la madre. Riflettono esattamente il suo carattere, complesso e sofisticato. Nel film, non sono uguali ma il narcisismo del personaggio emerge dalla camminata, dal modo di bere il caffè. Dai suoi gesti, insomma. Altro elemento importante è il tatuaggio a forma di stella che appare in ambedue i testi. È il simbolo di un legame che, nell’epilogo, si dissolve in una tragica decisione. Quasi come “ultimo desiderio”, Stella consegna il regalo che, inquadrato più volte durante le storia, avrebbe voluto usare in vacanza con la sua Lenni: una coppia di maschere da immersione. Per guardare sotto la superficie del mare o per guardare diversamente una realtà spesso troppo difficile da vivere?
Non conta saperlo, conta solo che a guardare fossero in due e insieme. Un ultimo sguardo e, poi, protagonista ritorna lei: la benzina. Si potrebbe notare l’assenza della scena in cui le ragazze si bagnano di benzina fingendo di essere in mare, ma questa è una scelta di regia, condivisibile o meno. Non molto condivisibile, invece, la decisione di inquadrare il grande fuoco dopo l’esplosione e tutti i pezzi bruciati che volano dall’alto. Forse, in questo caso, la regista avrebbe potuto rimanere fedele al romanzo. Una cascata di maschere da immersione, con magari una risata di divertimento di tutte e tre le donne come voice over, avrebbe dato vita al finale giusto. Un finale di incontri, di ritrovata comprensione e di una prospettiva ottimista di un possibile lieto fine dopo la vita.
[1] S.Cortellazzo – D.Tomasi, Letteratura e cinema, Editori Laterza, Bari, 1998, pag. 17.