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Intervista a Kuno Windisch [parte II]

11/11/2005 13260 lettori
5 minuti

[leggi la parte I]


A.B. > Consideriamo l’azienda come palcoscenico sociale. Si può parlare di “universali” nel caso di ciascuna figura professionale che interpreta se stessa nei paesi in cui lei ha lavorato? Ossia, lo spessore del ruolo di ogni singolo dipendente (settore manageriale o impiegatizio che sia) è uguale in ciascun paese, dal momento che questo è caratterizzato da una cultura, una tradizione linguistica, un background geografico, storico e politico peculiari?

 

K.W. > “Universali” non so, perché lavoro “solo” in Germania e talvolta in Italia.

 

Quanto ai due paesi citati, direi che non c’è una grande differenza nell’interpretazione dei ruoli professionali, bensì una differenza comportamentale nei workshop stessi di teatro aziendale. Voglio dire che, indifferentemente dal ruolo professionale, in genere i tedeschi sono meno dotati di teatralità. Impiegano due ore in più per entrare nel processo teatrale; però, una volta entrati, si tuffano davvero. Mentre gli italiani, dotati di maggiore senso di teatralità, entrano nel processo teatrale senza esitare ma ci mettono un po’ più di tempo per tuffarsi davvero. Tutto lì. Una volta tuffatisi, tutti, sia tedeschi che italiani, sono contenti, perché scoprono che il teatro gli apre un mondo assolutamente autentico, pieno di nuove esperienze ed emozioni.


Quanto alle relazioni fra i ruoli professionali di diversi livelli gerarchici, direi che c’è un importante principio teatrale che vale dappertutto (per forza, perché la vita è un teatro e il teatro è  un modello della vita): il re va sempre interpretato dagli altri.

 

Significa che per una persona non è possibile recitare il ruolo del re se non ci sono altri che si inchinano. La leadership e la sottomissione vanno mano nella mano. L’una non esiste senza l’altra (a questo proposito, trovo fra l’altro, molto significativi i pezzi teatrali Sua maestà di Cerami e Fine di partita di Beckett.)

 

Lo sviluppo della qualità dei ruoli sociali diversi è un patto di reciprocità fra gli interessati e non dipende tanto dalla cultura etnico-nazionale, ma dalle sole strutture psichiche. È un po’ simile al dilemma della gallina e dell’uovo: non si sa bene chi inizia il gioco. Se il leader è un tiranno e chiede la sottomissione, il popolo si sottomette se in quel momento è pronto a piegarsi al potere di un tiranno. E se, al contrario, un popolo reclama la tirannia, troverà senz’altro un suo tiranno. I problemi sorgono solo, se e quando un popolo non vuole seguire la pretesa sulla leadership di un sedicente leader e viceversa. In poche parole, ogni leader si merita il popolo che ha e ogni popolo si merita il leader che ha.

 

A.B. > “Ridere è l’espressione più seria che ci sia”. Mi riferisco a una frase che appare nel suo sito. È noto che la risata sia l’unica espressione riconosciuta da tutte le culture. Mi potrebbe commentare questa affermazione, molto incisiva e veritiera?

 

K.W. > Voglio dire che ridere apre la mente alle nuove esperienze. Solo ridendo siamo aperti ad accogliere un vero e complessivo apprendimento. La curiosità ride.

 

 

A.B. > E nella (sub)cultura aziendale, l’atto della risata ha una funzione catartica (catarsi come uno degli elementi primari caratterizzanti il teatro), la cui espressione finale è quella della cosiddetta “risata a denti stetti”, che nasce dal contrasto tra ciò che appare e ciò che è o ciò che la forma detterebbe. Qual è il suo stato d’animo quando si propone come specchio di una realtà aziendale particolarmente problematica? Perché lei sente suoi i personaggi che sta dirigendo e/o rappresentando, suppongo con una ragionevole certezza…

 

K.W. > Non condivido questa immagine scura della vita aziendale; è un pregiudizio di teorici che, per mancanza di esperienza,  vorrebbero – per un piacere a me sconosciuto - denigrare la vita aziendale. La sua affermazione non significherebbe altro che la vita in azienda sarebbe per principio “sporca”. E non vorrei neanche sottolineare che la “risata aziendale” finisca “a denti stretti”. Direi addirittura che nella media azienda che ho avuto il piacere di conoscere io, si ride tanto perché c’è anche tanto piacere e tanto di positivo.

 

Il mio animo quando mi propongo, è l’animo professionistico del facilitatore: la neutralità dello specchio. Il mio ruolo non è né di simpatizzare con qualcuno né di disprezzare nessuno.  Il mio ruolo è quello di dare una mano e basta. Dare una mano nel senso che non do consigli miei, ma aiuto il cliente a trovare lui stesso (in se stesso) la soluzione migliore al suo dilemma – se mai ne avesse uno, perché spesso lavoro anche per e con clienti che non hanno, di fatto, nessun problema, ma vogliono fare il teatro aziendale per puro piacere, per pura distrazione e come incentivo per i loro collaboratori. Ecco quanto è positiva anche la vita aziendale!

 

Il compito del facilitatore è di dare aiuto all’auto-aiuto. È semplice e difficile allo stesso tempo. Difficile, perché presuppone una distanza professionale: non devi permetterti il fenomeno del transfert, non devi farti caricare personalmente dei problemi dei clienti.

 

E, per finire, io non “dirigo” nessuno, non l’ho fatto neanche in qualità di regista. Do sostegno ai clienti (agli attori) per trovare il modo di auto-dirigersi, di diventare autonomi.

 

Quest’ultimo punto è, fra l’altro, il punto centrale della mia etica di consulente. Lo scopo dei miei interventi è sempre l’autonomia del cliente, non la sua dipendenza (da me)!

 

 

A.B. > L’uomo racchiude in sé due triadi fondamentali che scaturiscono da due punti di fuga complementari e inscindibili: uomo nella sua totalità come portatore di intelletto, anima e corpo e uomo come motivo, medium (in senso etimologico) e meta del processo teatrale. Unificando questi concetti grazie a un’unica chiave di lettura, quindi, esistere è già calcare un palcoscenico, essere attore del proprio ruolo. È così?

 

K.W. > Non posso che dire di sì. Non c’è niente da aggiungere.

 

 

A.B. > Come nasce la sua rappresentazione dedicata al mondo aziendale? Ci può raccontare quali sono i passi che affronta quando viene contattato dal management aziendale?

 

K.W. > Come le ho già detto, io non preparo delle rappresentazioni per i clienti. I protagonisti sono, come ho spiegato prima, unicamente i clienti.

 

I passi sono i soliti che si usano nell’attività di consulenza. Dopo un primo contatto telefonico, ci si incontra personalmente per analizzare, chiarire e capire la situazione che ha spinto il cliente a contattarmi. Poi, nel periodo fra l’acquisizione e il primo seminario, mi informo più profondamente sul cliente e sulle attività specifiche dei futuri partecipanti perché, per accompagnare qualcuno lungo un pezzo di strada, bisogna conoscere i sistemi e i processi nei quali esso sta vivendo e lavorando.

 

Nella lettera d’invito per i partecipanti formulo un titolo per il seminario. I partecipanti si preparano al seminario cercando delle scene (derivanti dalla letteratura, dalla musica, ecc.) che associano al titolo e portano al seminario questo materiale come base per il lavoro teatrale.

 

 

A.B. > E quali sono i metodi e le tecniche che solitamente propone?

 

K.W. > Propongo vari metodi, dalla classica recitazione fino alla pantomima, il teatro delle statue, il clowning, e così via. La scelta dipende da situazione, contesto, tema, umori... Ma non mi chieda quando e perché decido quale metodo adottare. Non potrei dirlo. Sono spesso delle decisioni spontanee, “di pancia”.

 

 

A.B. > In che cosa consiste il “dopo”? Cioè, che cosa accade in seguito alla sua opera di messa in scena, di duplicazione della realtà? Il teatro presenta numerosi parallelismi con l’attività di psicoanalisi, e l’analista non abbandona il paziente dopo avere evidenziato le cause della patologia che sta curando… Quindi qual è la sua prassi di medicazione, se così si può definire?

 

K.W. > Scusi, ma io non sono un medico e i miei clienti non sono malati, quindi non c’è né medicazione né cura. E mi scusi ancora, non bisogna mistificare né il teatro stesso né il teatro aziendale. Poi, come già ho detto, non c’è un’opera mia, l’opera è del cliente.

 

Noto, in base a ciò che dice e in base a tante sue formulazioni, che parte da un punto di vista che a me pare leggermente sofisticato. Il centro del teatro non è l’attore! È il pubblico! Il teatro senza il pubblico non esiste. È così anche nella consulenza: il centro di tutte le attività è il cliente con i suoi temi, problemi, bisogni, voglie, interessi… Io solo, come “teatrante aziendale”, non sono niente senza il cliente!

 

Quindi la domanda è posta in modo sbagliato: il consulente non evidenzia niente. È il cliente che evidenzia, con la modesta e discreta facilitazione del consulente. È così anche nella psicanalisi seria.

 

Inoltre il consulente non dovrebbe mirare al dopo, bensì al mentre. Quel mentre può durare anche tanto tempo e svolgersi con tante e varie metodologie della consulenza. Ma poi è finito. Deve essere finito! Al più presto possibile! La meta assoluta di ogni processo di consulenza e anche di analisi è, come già ho detto, l’autonomia del cliente.

 

 

A.B. > Il teatro aziendale sublima la dimensione temporale poiché guarda al passato vivendo il presente e si proietta verso il futuro, divenendo onnicomprensivo conseguentemente alla fusione delle tre dimensioni del tempo che percepiamo a livello cognitivo. Concorda con questa mia riflessione?

 

K.W. > Sì, concordo. Ma, ripeto, c’è troppa mistificazione! Il teatro è come la vita, no? Nella sua domanda ha descritto la vita, vero? E il cammino della vita è altrettanto banale quanto lo è quello del teatro. Oppure, diciamola così: senza le tre dimensioni del tempo, non resterebbe che la morte, vero?

 

Potrei comunque dire che il passato non mi è di fatto mai interessato tanto. Non amo scavare nel passato. E se poi, scavando, venissi a sapere che cosa ti è successo, a che ti serve? Cosa cambia? Credere alla forza del passato significherebbe credere che l'umanità abbia imparato dal suo passato. Invece niente. Mai nel cammino della storia scritta l'umanità ha imparato dai suoi sbagli passati.

 

Io credo invece nella forza del futuro. È l'unico raggio sull'asse del tempo, su cui si può fare qualcosa di produttivo e promettente. Sì, sono orientato al principio della mutevolezza e al futuro. Le soluzioni non sono che del futuro.

 

 

A.B. > Nella sfera aziendale, quali sono gli elementi comportamentali che a suo parere tendono ad agire a livello conscio e a livello inconscio o subconscio? In base alla sua esperienza, che cosa deve essere razionalizzato e condotto verso la sfera del cosciente affinché abbia successo la consapevolezza della propria “auto-guarigione”?

 

K.W. > La risposta la sa lei stessa. Un’azienda è un organizzazione come tante altre, come lo è, per esempio, anche la famiglia. In ogni organizzazione ci sono livelli consci e livelli di altro tipo di nome emozioni nascoste, falsità, mobbing, preferenze, ambizioni, rivalità, concorso… Li chiami subconsci… Eppure non sarei sempre sicuro se sono subconsci davvero o se sono solo rimossi. Quello che lei chiama subconscio io lo chiamo spesso “far finta di niente”. È come il principio delle tre scimmie: non sento, non vedo, non parlo.

 

 

A.B. > Può approfondire il concetto di volere fare leva sui dati di fatto, ovvero sul valore e sulle capacità individuali, piuttosto che sulle presunte colpevolezze di ciascuno? In pratica, chiariamo che il teatro aziendale non è affatto un processo che punta il dito sui colpevoli di determinate situazioni problematiche.

 

K.W. > Nella consulenza il colpevole non esiste. Non è una categoria valida. Ci sono solo persone che hanno sbagliato qualcosa, ma di solito con un motivo benevolo. Allora bisogna parlare dei loro motivi, visioni, traguardi e strategie, non di colpa.

 

Ma è vero, purtroppo viviamo in una cultura che incolpa gli errori invece di riconoscere l’iniziativa (anche se con fine sbagliata) e di vedere le chance offerte dagli errori.

 

Poi la maggior parte degli errori commessi nelle aziende vengono avvantaggiati da sistemi e processi sbagliati. Allora, piuttosto che multare quello che commette un errore, bisogna controllare i processi e i sistemi.

 

 

A.B. > Qual è il ritratto del formatore che lei predilige?

 

K.W. > Odio la parola formatore. Io non formo nessuno. Non sono Dio. I miei clienti non sono di un materiale che si possa formare. Come già ho detto, non faccio che accompagnarli per un pezzo di strada e dare loro un feedback continuo che gli possa rendere più facile l’auto-formazione e l’auto-sviluppo.

 

 

A.B. > Infine, utilizzando il suo lessico personale, come definisce i soft fact a cui si dedica ormai da anni?

 

K.W. > I soft fact sono un numero di facilità e competenze: poter superare le crisi, la competenza comunicativa, poter vivere il principio della mutevolezza, sapere maneggiare la critica, sapere dare i feedback, sapersi assumere la leadership… Il termine non l’ho inventato io, è un termine standard dell’economia aziendale.

 

A.B. > Bene. Augurandole un sereno proseguimento di lavoro, auspicando la massima espressione della riflessione e della creatività, la ringrazio per avere accolto il mio invito.

 

Prima di finire, vorrei annotare che per gli incarichi in Italia collaboro liberamente con una psicoanalista italiana. È una freelance anche lei. Mi piace collaborare. Non sono un tipico solista, ma preferisco essere un team player perché credo nel principio 1+1=3.

Ora la ringrazio anch’io.

 

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Per contattare Kuno Windisch:

 

E-mail: kuno.windisch@tiscali.de

Telefono: +49 201 9990010

Cellulare: +49 179 3974480

 

 

Arianna Bernardini
Arianna Bernardini


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