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Intervista con Massimo De Nardo di Segnal'Etica

05/08/2004 21753 lettori
4 minuti

 

“Ci ritroviamo nella redazione di comunitàzione.it. Non è un luogo: è un non
luogo, ha solo il tempo che la definisce: il live (Baudrillard).
Presenti ancora alle ore 23,00
di una domenica afosissima Sara Caminati da Roma
Massimo De Nardo dalla sede Segnal'etica,
Tolentino, provincia Macerata
ed io separato tra Cosenza e Salerno:
sperimentiamo il dono dell'Ubiquità,
in luoghi diversi ma nello stesso luogo,
uniti dal tempo.”

 

Benvenuto a Massimo De Nardo, io do un link (segnaletica.sinp.net) per conoscerla meglio, lei in cambio mi darà... una prima risposta: Segnal’etica, cos'è?

E' essenzialmente un sito che si occupa dei linguaggi della comunicazione. Il nome è diviso da un apostrofo, fondamentale per definirne la linea di condotta: segnali più etica. Tutto è "segnale", segno (tutto è comunicazione); l'etica è una bella pretesa, e dovrebbe farci un po' capire ciò che è giusto o ingiusto, bello o brutto, buono o cattivo, gradevole o spiacevole. In maniera molto leggera, l'etica è per noi una specie di codice di comportamento, spesso difficile da applicare con rigore. In Segnal'etica ci proviamo. Lo facciamo esprimendo un giudizio, prendendo posizione, scegliendo da che parte mettersi (al di là del torto o della ragione). In Segnal'etica gli argomenti si sviluppano attraverso rubriche: Colibrì (libri sulla comunicazione), Fotograffiare (fotografia), Oggetto/soggetto (design), Quadrifoglio (arte), Pubblicità rivista (la pubblicità stampata), Reclamo/reclame (la pubblicità sociale), Controsenso (argomenti sul linguaggio). C'è una rubrica (molto seguita), Lettera P, che riporta le e-mail che si sono scambiati i pubblicitari dell'ADCI sulla comunicazione e sul mestiere del pubblicitario (per adesso la loro mailing list è ferma). Poi ci sono alcuni link interessanti, per aprire altri, uguali o differenti discorsi.

In questi giorni è on-air la nuova campagna pubblicitaria dell'Università di Macerata. Le ha realizzate l'agenzia Iceberg, con cui lei collabora; perchè puntare tutto sul verbo Educare? E dove rivolgere l'attenzione, all'etimologia del verbo "ducere", guidare?

La campagna pubblicitaria dell'Università di Macerata è stata realizzata dall'agenzia Iceberg (di Macerata), della quale sono un collaboratore. Il titolo è "La buona educazione". Trattandosi di Università è facile intendere l'educazione come bagaglio culturale. La "buona educazione" diventa un giudizio sul "prodotto università", che "educa bene" per il tipo di aree di studio, per i servizi offerti agli studenti, per la qualità della vita universitaria e, non meno importante, per la vivibilità di una piccola città come Macerata. Da un punto di vista della comunicazione, il messaggio è stato costruito sui contrasti. Perché in qualche modo il messaggio deve farsi notare, deve coinvolgere, altrimenti è nullo. Con garbo e ironia, ovviamente. Il contrasto comunicativo è più interessante, più coinvolgente. La headline "La buona educazione" si abbina ad una immagine di contrasto: ragazzi (studenti) che fanno "gestacci". Però senza volgarità; lo fanno sorridendo, smorzando la "maleducazione". C'è anche una "buona educazione" intesa come "guida" (ducere significa guidare). L'Università di Macerata è allora anche una "buona guida", che aiuta lo studente a scegliere la facoltà, ad organizzare un proprio percorso culturale, ad orientarsi nell'ateneo e nella città.

E' una campagna che ha suscitato critiche molto aspre e consensi positivi. Il giudizio più pesante (e fuorviante), l'ha espresso Marco Lodoli su La Repubblica (21 luglio), etichettando la pubblicità come volgare e irritante. Il Codancons ha presentato denuncia perché la campagna supera i limiti della tollerabilità e è offensiva. La cronaca locale si è subito movimentata, con copertine e articoli a tutta pagina. La risposta dell'agenzia Iceberg si può leggere su Segnal'etica. Molto consolatoria, professionalmente, è la presa di posizione dell'Aiap attraverso il sito socialdesignzine.

De Nardo, ma cosa è per lei la pubblicità? Se le dovessi chiedere una definizione icastica di pubblicità, non è che mi risponde come Enzo Baldoni: solo conzonette?

La risposta dovrebbe darla chi spende il proprio denaro per pagare un'agenzia pubblicitaria e i mezzi della comunicazione. Insomma, l'azienda. Non vorrei cadere nel motivetto che dice: "la pubblicità è l'anima del commercio e il commercio dell'anima". Motivetto, quindi canzonette.

Una discreta definizione (gusti personali) è: "La pubblicità? E' tutta reclame". Dolcetto e scherzetto in un'unica confezione.

Parliamo di pubblicità…

C'è da distinguere tra chi la pubblicità la fa (l'agenzia), la subisce (il pubblico), la gestisce (il potere politico). Chi la fa ci campa, e siccome non tutto quello che luccica è creativo, è un mestiere serio, eccellente e anche balordo.

Chi la subisce (siamo tutti clienti di qualcuno) si risparmia il dietro le quinte della comunicazione, vede il messaggio finale, si lascia coinvolgere, si diverte, esprime intolleranza, ma tanto alla fine deve passare alla casa, pagare e ritirare la merce. Chi la gestisce vuole il consenso e fa di tutto per ottenerlo; le migliori (in senso aberrante) agenzie pubblicitarie stanno a Montecitorio.

Le aziende, secondo lei, potrebbero fare a meno della pubblicità ?

Decisamente no. La pubblicità è comunicazione. Siamo abituati a considerare la pubblicità più attraverso i "mezzi" che attraverso il suo essere messaggio. Una lettera aziendale, spedita con francobollo, quando è "ben organizzata" nel linguaggio non è diversa da uno spot o da un annuncio radio o da una affissione. Alcune aziende ammettono che non hanno mai fatto pubblicità per vendere i loro prodotti (vantandosene un po'), ma, a mio parere, si sbagliano perché non considerano che anche le telefonate fatte dai loro agenti di commercio, a nuovi e vecchi clienti, sono comunicazioni, sono messaggi pubblicitari. Non sto parlando del telemarketing, che è una delle tante forme della comunicazione, sto facendo riferimento alle quotidiane telefonate dall'ufficio o dal telefonino, anche solo per chiedere ad un cliente se dalle sue parti fa caldo o meno. Insomma, quando c'è comunicazione c'è presentazione di qualcosa, di sé, di un prodotto, di un progetto, di una iniziativa commerciale. Il fine, in questa condivisione, è la vendita/acquisto. Siamo sempre clienti di qualcuno. Queste cosiddette "aziende no pubblicità" dovrebbero però organizzare la loro comunicazione, che è occasionale e troppo intuitiva; non è necessario utilizzare gli strumenti tradizionali, però è indispensabile affidarsi a pubblicitari di professione.

Attualmente le aziende hanno la capacità di identificare l’internet come un “buon mezzo” attraverso il quale farsi pubblicità?

Concettualmente le aziende sanno che potrebbe essere un buon mezzo, però quando occorre scegliere uno strumento di comunicazione la maggior parte delle aziende si affida a mezzi più apparentemente concreti, come la carta stampata o la televisione, che sono in qualche modo anche "mezzi non attivi", che possono cioè essere subiti dal pubblico. Come, ad esempio, un giornale aperto sopra il tavolo di un bar, un televisore o una radio sempre accesi.

L'internet implica ovviamente una partecipazione, la ricerca attiva di quel sito, di quella notizia, di quell'argomento. Le e-mail potevano essere un buon veicolo di comunicazione, ma sono ormai spazzatura, arroganza, intromissione. Lo spam diffonde virus. E il panico. Uno strumento splendidamente "aperto" come l'internet oggi costringe alla difesa. Commercialmente l'internet è ancora considerato un catalogo online. Bisogna trovare un linguaggio diverso.

Quali sono, a suo giudizio, i motivi che non permettono alla pubblicità italiana di essere, qualitativamente e creativamente, fra le migliori del mondo ?

Lei ha già espresso un giudizio negativo. Che condivido. La creatività c'è, ma resta nell'archivio dei progetti rifiutati. In genere (il riferimento è alla mia esperienza di copywriter) l'agenzia pubblicitaria presenta ad un cliente tre tipi di proposte: una ad impatto forte, una molto creativa, una normale a basso tono. L'agenzia spinge per le prime due (ovviamente); il cliente il più delle volte sceglie la terza: non vuole rischiare (i soldi li spende lui e c'è la "moralità" del suo prodotto, anche se viene costruito in Oriente da minorenni). Però non c'è solo il rischio calcolato, è anche una questione culturale. La maggior parte delle aziende non ha, ancora, cultura di comunicazione. Per me, è sempre valido il concetto che la cultura dominante è quella della classe dominante. Un Paese a cultura bassa come il nostro, governato dai mezzi di comunicazione (che non fanno cultura, ma sono supermercati in diretta), non può produrre comunicazione alta, nel senso della qualità e della creatività. Esistono comunque mezzi di comunicazione indipendenti, alternativi, più territoriali, locali, molto interessanti anche per una pubblicità personalizzata, più mirata.

La creatività (che è sempre comunicazione e condivisione) è una linea di condotta di questi mezzi "periferici", e la pubblicità può trovare una sua espressione piacevole, informativa, coinvolgente, senza più temere il telecomando. La realtà poi smorza il mio ottimismo, anche se resto convinto che potrà esserci un possibile mondo diverso, con una possibile diversa comunicazione, divertente e utile per tutti.

Una comunicazione diversa? Lei crede che ci sarà? E se la cultura dominante è dominata da gente come il professore Lodoli, quando potremo innovare il modo di comunicare, e cambiare la cultura?

Lo credo, sì. Perché credere significa affidare, confidare. Quando c'è condivisione sei meno isolato. Un buon uso del'internet, come state facendo voi ad esempio, ha già messo in movimento questo processo innovativo, sovvertendo molte regole.

Il professor Lodoli mi ha disorientato con il suo articolo contro la pubblicità dell'Università di Macerata; articolo polemico (legittimo) e volgare (legittimo solo per il suo cattivo gusto). Lodoli ha suscitato un gran polverone perché è personaggio di cultura pubblica; scrive su un autorevole giornale che stampa molte copie, scrive piccoli libri per Einaudi, va in televisione. Una volta l'ho visto a un dibattito in tv con i capelli conciati alla rasta, non lunghi ma intrecciati. Un giovane gli contestava quel modo di avvicinarsi ai giovani: non bastano certo le treccine (più o meno era questo il senso). A me non era dispiaciuta quella sottile provocazione. O forse Lodoli voleva solo fare "della pettinatura rasta", senza coinvolgimenti socio-cultural-antropologici.

Non credo che Lodoli appartenga alla cultura dominante, perché questa si pianifica in un bunker della Costa Smeralda. Lodoli ha la fortuna di essere come noi, che ogni tanto spariamo corbellerie.

Per chiudere, nel ricordarle che la aspettiamo di nuovo in questo spazio, le chiedo: l'Università di Macerata attaccata aspramente per questa campagna di comunicazione. Un paio di anni fa stesse aspre critiche contro l'ateneo salernitano per aver fatto una campagna dal titolo "studiare nel mezzogiorno". Comunicare per un'istituzione è sempre delicato, per le Università diventa complicato invece. Perché secondo lei?

Perché ci si intrappola in un falso perbenismo: trattare l'Università come un prodotto da ipermercato fa storcere il naso, sia alle istituzioni sia agli stessi studenti/utenti. Eppure uno paga l'iscrizione, i libri, la mensa, l'alloggio eccetera. Acquistare cultura e soggiorno non costa poco. Se c'è un prodotto che sta sul banco proprio come la carne surgelata è il libro. Lo vendono a chili. Fanno bene. Stampare libri costa, se poi è un mestiere bisogna camparci. Se il libro è bello ci guadagna anche il lettore.

Con l'Università, ma anche con un ospedale, lo scontrino alla cassa graffia la nostra coscienza. Però siamo ben disposti a penose maratone televisive per elemosinare una tac (e scoprire, in alcuni casi, che è un miserevole imbroglio).

Tutto è prodotto. La merce non sempre è superflua. L'Università è una merce preziosa (al di là del padronal-morattiano pensiero), e allora diamole uno scaffale ben visibile, da prodotto di prima scelta.

Per finire, un invito a tutti di continuare a porre domande e discutere di pubblicità anche con Massimo De Nardo utilizzando lo spazio qui sotto...

"Sara dai, vieni con me e Massimo a prendere qualcosa da bere. Massimo,
che ne dici di quel posticino nell'Ontaio, sembra abbiano dei cocktail fantastici.
Va bene, ci troviamo lì tra due click. A dopo...

Ehi, chi ha spento la luce,
ragazzi, non lasciatemi da solo nelle scale,
ho paura del buio... c'è nessuno?
Di nuovo solo... tocca sempre a me di chiudere.
E ora dove sono le chiavi?

Redazione di Comunitàzione
Redazione di Comunitàzione

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- Luca Oliverio ( profilo >>), art director, ideatore di Comunitazione.


- Gianluigi Zarantonello ( profilo >>), laureato in SdC a Padova, Senior Content Manager di Comunitazione.


- Sara Caminati ( profilo >>), studentessa di SdC a Roma, Junior Content Manager di Comunitazione.

- Francesco Sorce ( profilo >>), studente di Scienze Politiche, Content Manager junior di Comunitazione.


ed inoltre...


Gabriele Rossi


Gianfranco Virardi


Federica Palmisano


Marco Molinari




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