U2 - 'How to dismantle an atomic bomb'
Questa recensione sugli U2 la iniziamo con un salto indietro nel tempo: era il
1998, “Pop”, il cd più brutto che i 4 dublinesi abbiano mai
realizzato, era uscito da pochi mesi e non aveva riscosso il solito eclatante
successo, e anche il “Popmart tour”, pur mastodontico e sfarzoso,
non era stato apprezzato da molti. Logico che gli U2, in una simile situazione,
abbiano dovuto decidere: continuiamo a sperimentare o andiamo sul sicuro dando
ai nostri fan ciò che vogliono? I fatti parlano da soli: la band alla fine
ha scelto la seconda opzione. E, a conti fatti, ha scelto bene. Dopo quasi 25
anni, cos’hanno ancora da dire gli U2? Loro che un sound così particolare
lo hanno inventato, perché dovrebbero rinnegarlo? La rinascita parte proprio
nel ’98, con “Greatest Hits 1980-1990”, che riesuma una vecchia
b-side, “The sweetest thing”, direttamente dalle sessions di “The
Joshua Tree” del 1987: vale a dire, garanzia di qualità. Un preludio
a quello che gli U2 saranno negli anni a venire, cioè una continua citazione
di se stessi senza però, va detto, divenirne la caricatura. È il
2000, arriva “All that you can’t leave behind”: è ad
esso che dobbiamo rapportarci per parlare del nuovo “How to dismantle an
atomic bomb”. Quello era il cd di “Elevation” e “Beautiful
day”, questo è il cd di “Vertigo” e “Sometimes
you can’t make it on your own” (scritta da Bono per il padre nel 2001).
La differenza si testa soprattutto nel suono. Se, infatti, parliamo sempre di
brani rock, tipicamente alla U2, è vero anche che la produzione di Steve
Lillywhite (già in cabina di regia nei primissimi dischi del gruppo) regala
ai nostri un sound più sporco, più grezzo, più rock appunto,
che a tratti (è il caso di “Vertigo”) rimanda a lavori come
“Boy”. Non è un caso se anche Bono considera questo disco come
se fosse il primo. La risalita, dunque, continua. Tuttavia, così come “All
that you cant’t leave behind”, tranne che per le ottime canzoni, alla
fine si rivelava un bluff, perché (su 11 tracce) moriva dopo la quinta
afflosciandosi nel finale, anche “How to dismantle an atomic bomb”
subisce lo stesso destino. Fino alla sesta canzone (mettiamoci anche la settima)
è folgorante, vibrante, insomma ci restituisce gli U2 di una volta. Ma,
negli ultimi 4 pezzi, scende di tono in modo imbarazzante. “Crumbs from
your table”, che pure non è male, brilla più per l’impegno
sociale che non per la sua funzione nella scaletta del cd. “Original of
the species”, poi, ha un sintetizzatore abbastanza brutto (sembra voglia
imitare, ma con un risultato infelice, certe cose dei Beatles) che sicuramente
non dà spinta al disco, anzi. “One step closer” è, obiettivamente,
una bella canzone, ma è un altro lento, e come tale si poteva evitare.
“Yahweh”, che chiude la track-list, è sicuramente migliore,
come conclusione, di quella “Grace” che mandava tutti a casa alla
fine di “All that…”, ma è anche in questo caso un brano
secondario: pur discreto, infatti, è difficile pensare che gli U2 non riuscissero
a tirare fuori qualcosa di più vivace. Insomma, quasi si rivaluta quello
che, escluso il “Best of 1990-2000” di tre anni fa, è il loro
precedente cd: con la produzione di Lillywhite al posto di Flood e Brian Eno,
infatti, anche pezzi come “When I look at the world” e “Wild
Honey” avrebbero potuto recitare un ruolo più di primo piano. E invece
no: dobbiamo accontentarci di ciò che abbiamo, e ascoltare la sequenza
“Vertigo” (l’episodio migliore, irripetuto nel resto del cd)
– “Miracle drug” (che ci fa tornare ai tempi d’oro citando
“With or without you”) – “Sometimes you can’t make
it on your own” – “Love and peace or else” (interessante)
– “City of blinding lights” (esaltante) – “All because
of you” (una bella scarica di energia) – “A man and a woman”
(buona). Il resto può essere saltato. Lo sapevo che non dovevo fidarmi
quando The Edge dichiarava: “Questo è il disco più rock che
abbiamo mai fatto”. Ma quando mai? E “War”, “The unforgettable
fire” o “The Joshua tree” dove li mettiamo?