Spielberg attraverso gli occhi di “The Fabelmans”
A oltre settant’anni il grande Steven Spielberg attraversa mezzo secolo di storia americana, nel suo amarcord più autentico e delicato. Lo fa attraverso quell’esperienza maturata con gli occhi di quell’eterno bambino senza età, con quella maniera di raccontare le sue storie più belle, riuscendo a migliorare quel linguaggio narrativo che aveva fatto intravedere già con l’autentico Munich, vero e tagliente come solo la drammaticità della vita può esserlo. Un ritmo meno favolistico che corre sui binari di quella narrazione che del linguaggio cinematografico ne si conoscono tutti i segreti. E di segreti Spielberg non ne ha mai avuti, almeno per il regista che ci ha fatto scoprire se stesso e sognare con le pagine più commoventi di quel racconto per immagini in movimento nato più di un secolo fa, attraverso l’obiettivo di una cinepresa. La stessa cinepresa che viene vista come il più grande mezzo che un giovanissimo Spielberg scopre di saper usare, e bene. Tutto per un cinema che nasce dalle sue stesse paure, come quelle di un bambino di sei anni che assiste in sala alla proiezione di Il più grande spettacolo del mondo (di Cecil B. DeMille), per rimanerne impaurito e affascinato, sorretto dall’amore artistico di sua madre e dal pragmatismo autentico del padre.
Una crescita fatta di giorni scanditi da quelle paure che ci fanno maturare, anche se l’odio antisemita non è mai un motivo per crescere. In questo film Spielberg si racconta a fondo, senza maschere e soprattutto senza quelle bellissime metafore che hanno sempre nascosto la vita del regista oltre la macchina da presa. Se E.T. era sempre stato dichiarato il film più autobiografico di tutti, oggi Steven si spoglia di quelle storie nate dalla fantasia e arricchite di quegli effetti speciali, per mettere da parte esseri surreali e fantastici e mostrarsi veramente a fondo. Ecco che si vedono i giochi di un bambino prendere nuova vita, da quel disastro ferroviario filmato in super 8 per tirarne fuori il suo primo filmino girato in casa. In questo film ci sono tutti gli elementi splendidamente fotografati da Janusz Kamiński, inseparabile come lo stesso John Williams dietro la partitura musicale della sua colonna sonora. E come poteva non esserlo.
Interpretato da una collaudata Michelle Williams (la madre Mitzi Fabelman), Paul Dano (il padre Burt) e un giovanissimo Gabrielle LaBelle nel ruolo del giovane regista, il film è un autentico tributo a quegli anni formativi che sanno fare crescere l’entusiasmo necessario ad aprire l’animo per regalarsi agli altri. L’amore materno filtrato in quell’intelligenza artificiale che ci ha toccato sino alle lacrime, per ritrovarlo identico e intatto, attraverso gli occhi di un bambino che chiede tutto il suo amore verso i propri genitori. Anche se le cose belle non durano per sempre. Come quegli amici e compagni di scuola che vengono usati per girare quei primi cortometraggi di un talento che si sta delineando. Forte e prepotente proprio come Super 8, prodotto assieme a J.J Abrams, quasi la prima auto dedica alla vita del regista. Ora che sappiamo di conoscerlo veramente bene. Autenticamente Steven Spielberg, il nostro uomo dei sogni.