Dartmouth. 50 anni dopo*.
Sono passati poco più di 50 anni dallo storico seminario di Darthmouth che nel 1956 sancì ufficialmente la nascita dell’Intelligenza Artificiale (IA). Ma quali erano le speranze e gli obiettivi dei pionieri del settore agli albori della disciplina? Che cosa è che avevano esattamente in mente questi signori quando parlavano di Intelligenza Artificiale? Una delle prime generiche definizioni di IA fu data da Marvin Minsky, Nathaniel Rochester, Claude Shannon e John Mc Carthy (i quattro promotori del seminario di Dartmouth) in un documento antecedente alla data di quello storico incontro (il documento è datato 31 agosto 1955 ed è stato tradotto per la prima volta in italiano da Paronitti).
In tale documento veniva individuato, come obiettivo primo dell’IA, quello di “costruire una macchina che si comporti in modi che sarebbero considerati intelligenti se un essere umano si comportasse in quel modo”. Insomma i protagonisti della prima IA (detta anche IA classica) sognavano di costruire degli automi intelligenti le cui “capacità” ed attività potessero essere del tutto equiparabili, e quindi “confondibili”, con quelle svolte da un essere umano in carne ed ossa dotato di intelligenza (andava in tale direzione anche il famoso test ideato da Alan Turing qualche anno prima).
Artificiali e intelligenti dunque. Gia…”intelligenti”. Nel primo periodo di sviluppo dell’IA uno dei tratti essenziali dell’ ”intelligenza” era considerata la capacità di manipolare ed elaborare simboli (una definizione alquanto stringente). Poi, con il passare degli anni, e con il susseguirsi di nuovi approcci teorici e programmi di ricerca, sono state “tentate” altre strade e sono state date nuove definizioni di tale concetto (che rimane, tuttavia, ancora oggi avvolto da costellazioni di definizioni incomplete e non definitive).
Ad ogni modo da Dartmouth ad oggi di acqua ne è passata sotto i ponti. E di certo, nella storia dell’IA, non sono mancati successi (pensiamo al clamore che fece la vittoria del calcolatore della IBM, Deep Blue, quando riuscì a battere il grande campione di scacchi Garry Kasparov) come pure momenti di difficoltà.
Restano ancora aperti, però, quesiti non rinviabili di natura epistemologica. Ad esempio: in che modo può essere inquadrata, oggi, tale disciplina? All’interno di quale frame (teorico e di senso) può essere inserita? Un fatto appare certo: l’IA, oggi più di ieri, ha la necessità di essere “duplice”. Di essere, cioè, come sostiene Roberto Cordeschi, tanto disciplina ingegneristica (finalizzata alla costruzione di macchine che permettano all’uomo di vivere una vita migliore), quanto disciplina psicologica (rivolta, cioè, alla costruzione di agenti che riproducano, o che quantomeno tentino di riprodurre, alcune caratteristiche cognitive umane allo scopo di poterci rivelare qualcosa in più sui misteri del funzionamento della nostra mente).
Il futuro di questo settore si gioca sulla capacità di bilanciare questi due aspetti. Ed è proprio in tale duplicità che risiedono le maggiori potenzialità di sviluppo per l’IA.
*Articolo pubblicato su Nòva Lab - Il Sole 24 Ore con il titolo "Artificial Intelligence"