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Le organizzazioni pubbliche e la formazione

19/07/2007 17623 lettori
4 minuti
Sta mutando la considerazione che della formazione hanno le aziende e la pubblica amministrazione: quella di un costo da affrontare che non conduce a benefici certi e quantificabili. Ora che alle imprese, così come alla Pubblica Amministrazione non basta più un miglioramento e/o un’innovazione tecnologica, ma occorre, soprattutto, personale qualificato, sempre aggiornato e pronto a rispondere al cambiamento, ecco che la formazione può svolgere al pieno tutto il suo potenziale. Le organizzazioni stanno attraversando in questi anni un turbolento e delicato percorso. Da un tipo di gestione uniformante, indifferenziata e omogenea, sorretta dalle influenti teorie dell’economia di scala del mercato, si sta passando, fra difficoltà e resistenze di ogni sorta, a una gestione capace di cogliere le unicità dei molteplici interlocutori dell’azienda e della pubblica amministrazione, interni ed esterni (tra i primi ad affermarlo T. Pievani e G. Varchetta, Il management dell’unicità, Milano, 1999, più di recente v. F. Maimone, Dalla rete al sylos, Modelli e strumenti per comunicare e gestire la conoscenza nelle organizzazioni “flessibili", Milano, 2007). Le organizzazioni, ormai, non sono solo apparati funzionali ma sono anche la somma delle emotività delle persone che ne fanno parte, un crogiolo multidisciplinare dove, per evitare il caos, occorre saper come distribuire la conoscenza. Le nuove forme organizzative, nate per rispondere alle sfide della globalizzazione, alla sempre maggiore complessità ambientale e alla necessità di spingere al massimo il tasso di innovazione e competitività, sono destinate a diffondersi sempre di più, nel panorama italiano e internazionale, grazie all’introduzione massiccia delle nuove tecnologie. Le aziende più innovative sono quelle capaci di integrare l’innovazione altrui, di interpretare bisogni e tendenze monitorando tutto e tirando fuori, al momento opportuno, un alto valore aggiunto. Nell’attuale contesto la formazione deve divenire una nuova strategia. Attraverso adeguati piani formativi le imprese hanno la possibilità di differenziarsi dai loro concorrenti e la PA ha soprattutto l’opportunità di ridefinire la professionalità all’interno dell’organizzazione per divenire più efficiente. Negli ultimi dieci anni si è assistito ad una serie di cambiamenti che hanno interessato tutti i fenomeni organizzativi, coinvolgendo la cultura d’impresa e di management, ed anche le strategie, le strutture, la gestione delle risorse umane e le relative conoscenze e abilità. La globalizzazione dei mercati, l’orientamento delle organizzazioni verso il mercato/ambiente, l’impiego e lo sviluppo di tecnologie informatiche hanno fatto emergere l’esigenza di rivedere le strategie formative, finalizzandole alla costruzione di figure professionali che possano rispondere adeguatamente allo sviluppo dei settori produttivi e alle loro continue  trasformazioni. L’applicazione dei criteri di “qualità totale” nelle attività produttive porta con sé la necessità della “qualità totale” anche nelle attività formative, che devono soddisfare pienamente sia i soggetti che l’organizzazione in cui gli stessi sono inseriti. Infatti, la qualità della formazione non è misurabile solo dal punto di vista dei risultati conseguiti dagli allievi formati, ma è indice anche della capacità innovativa del sistema ed è ormai consolidata la convinzione che la qualità di un’azienda è strettamente legata all’energia innovativa che possiede. Ecco perché oggi le big company non sono più solo imprese produttrici di beni e servizi, ma vere proprie unità organiche di fattori produttivi finalizzati, capaci di elaborare cultura d’impresa anche tramite l’adesione e la motivazione dei singoli. Se poi si prendono in considerazione i fattori di concorrenzialità e i “nuovi” bisogni dei cittadini, si comprende perché un numero sempre maggiore di organizzazioni (ed anche la PA) abbia avvertito la necessità di adeguare costantemente ed in profondità la preparazione professionale dei propri addetti, pena la retrocessione ad una soglia di marginalità dell’impresa o l’inefficienza della struttura pubblica. Per gestire un tale cambiamento è necessario che l’attività di formazione delle risorse umane assuma un nuovo ruolo e si strutturi in termini precisi di risposta mirata ai bisogni emersi nella redazione dei piani di sviluppo della PA, ideando percorsi di crescita professionale adeguati ai nuovi assetti organizzativi. È ampiamente dimostrato in letteratura che anche nelle aziende più orientate alla manipolazione dei comportamenti, rimangono ampi margini di autonomia di pensiero e resistenza umana, e che il cambiamento calato dall’alto, “a tavolino”, si rivela spesso controproducente. Però, oltre all’approccio direttivo e al laissez-faire, esiste una terza via al change management, che privilegia il cambiamento dal “di dentro”, che nasce cioè dalle vere istanze ed esigenze delle organizzazioni, e non viene calato dall’alto (vedi, ad esempio, E. Schein, Culture d'impresa. Come affrontare con successo le transizioni e i cambiamenti, ed. Cortina, Milano, 1999 e F. Maimone, Dalla rete al silos, cit.). Voler cambiare le organizzazioni, senza tener conto delle esigenze e dei bisogni delle persone e delle stesse organizzazioni, significa sprecare risorse ed energie in un probabile fallimento. Nell’ultimo decennio, gli obiettivi della PA sembrano, infatti, focalizzarsi su alcuni fattori strategici: l’efficienza dei servizi al “cliente”, l’aumento della redditività, contemporaneamente ad una riduzione dei costi ed alla razionalizzazione dei processi interni. Ciò comporta un impatto molto rilevante sulle attività di formazione che dovrebbero focalizzarsi su una maggiore flessibilità della formazione stessa, una diversa distribuzione dei contenuti e un maggior coinvolgimento delle strutture/funzioni nei processi formativi. La formazione sta diventando una dimensione costante e fondamentale del lavoro e uno strumento essenziale nella gestione delle risorse umane. Così le organizzazioni, per gestire il cambiamento e garantire un’elevata qualità dei servizi, devono fondarsi sulla conoscenza e sulle competenze. Al novero delle organizzazioni non sfugge la PA, che deve assicurare il diritto alla formazione permanente, attraverso una pianificazione e una programmazione delle attività formative che tengano conto anche delle esigenze e delle inclinazioni individuali. Il rinnovamento della P.A. è passato per varie tappe ma ora pare giunto ad un punto d’approdo. Ne consegue un ruolo nuovo del concetto di formazione: gli addetti nei vari settori, infatti, sono chiamati ad esprimere competenze nuove rispetto al passato, che non coinvolgono soltanto aspetti tecnicospecialistici, ma anche gestionali, comportamentali ed organizzativi. E’ evidente come sia difficile trasferire contenuti professionali nuovi su schemi culturali tradizionali: ed è per questo motivo che qualsiasi processo di cambiamento andrà incontro a completo fallimento se non verranno coinvolti coloro che dovranno esserne i protagonisti. Un primo intervento può essere costituito dall’aumento di poli di formazione dislocati opportunamente sul territorio presidiato, riducendo in tal modo le spese e, in generale, i disagi per i dipendenti. Altro punto d’intervento può essere l’utilizzazione mirata della FAD (Formazione a Distanza). Naturalmente vi sono abilità e competenze che la FAD non può garantire e, pertanto, è necessario prevedere e programmare anche sistemi formativi integrati, che prevedano percorsi di apprendimento sia a distanza che in aula. In questo contesto si collocano le sperimentazioni di open learning (apprendimento aperto), un tipo di approccio formativo costituito da sistemi flessibili, che integrano momenti di autoapprendimento con incontri seminariali. 

Un ruolo importante, nella formazione “che verrà”, potranno averlo le Comunità di pratica. Le comunità di pratica sono dei gruppi di persone che si costituiscono per trovare comuni risposte a problemi inerenti l'esercizio del proprio lavoro.  Esse appaiono caratterizzate dall'essere spontanee, dal poter generare apprendimento organizzativo e dal favorire processi di identificazione. I membri di una comunità di pratica condividono modalità di azione e di interpretazione della realtà, costituiscono nel loro insieme una organizzazione informale all'interno di organizzazioni formali più ampie, articolate e complesse. I partecipanti alle attività delle comunità di pratica, col loro apporto, accrescono il senso d'identità professionale e creano una rete che può indurre reali processi di rinnovamento, costituendo quindi una significativa ed efficace risorsa di aggiornamento delle competenze professionali. L'efficacia deriva dal fatto che i contenuti discussi nelle comunità di pratica soddisfano esigenze di operatività, tempestività e contestualizzazione dell'apprendimento. Le nuove tecnologie favoriscono la possibilità del mantenere attive e funzionanti  comunità di pratica superando il limite della distanza geografica e consentendo una comunicazione rapida e soprattutto multilaterale. Grazie alle risorse della telematica, è possibile elaborare situazione che evolvono in ragione dell'apporto critico dei membri della comunità, divenendo risorsa di tutti, attingibile alla bisogna da ognuno per uno svolgimento più consapevole e più efficace del proprio compito professionale. Attraverso le attività condotte nell'ambito della comunità di pratica si costituisce, stratificandosi nel tempo, un repertorio condiviso di risorse, si struttura un linguaggio comune, si elaborano dei convergenti stili di azione, si modellano delle comuni modalità ricorrenti (routine) di pensare e di agire. Le comunità di pratica si basano sul presupposto teorico che l'informazione ha un valore solo se accessibile, e che va incentivata la disponibilità degli individui di creare un comune patrimonio di conoscenze e di pratiche di lavoro. Cosa deve fare chi gestisce una comunità di pratica? Deve non certo produrre interventi formativi di tipo tradizionale, ma piuttosto facilitare e articolare le attività di comunicazione, negoziazione e documentazione con strumenti  favorenti l'istituirsi di sistemi relazionali di tipo reticolare. In tal modo i processi di apprendimento collaborativo potranno esplicare tutto il loro potenziale, consentendo l'istituirsi di una "biblioteca" di conoscenze condivise, basata sulla messa in comune e la negoziazione delle conoscenze personali. Ma in primo luogo un’attenzione particolare deve essere riposta, da parte dei vertici delle organizzazioni pubbliche, alle Comunità di pratica degli stessi formatori, che nella PA dovrebbero essere messi in grado di promuovere loro stessi la nascita di altre Comunità di pratica professionale (v. E. Wenger, Richard McDermott, William Snyder, Cultivating communities of practice, A guide to managing knowledge, Harvard Business School Press, 2002).

Angelo Fabrizio-Salvatore
Angelo Fabrizio-Salvatore

Formatore della PA. Autore di numerosi articoli e saggi in materia di diritto civile, amministrativo, comunicazione organizzativa, scienza delle organizzazioni su riviste specializzate. Giornalista pubblicista dal 1992, ha collaborato anche con quotidiani nazionali e scritto per siti web di portata internazionale. Ha preso parte a più di un evento internazionale (Conferenze, Seminari, etc.) relazionando in inglese. Si interessa da tempo di Comunità di pratica.